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Comprensione del fenomeno: Riferimenti teorici nell'attività clinica e Cosa è il suicidio: percorsi filosofici, religiosi e letterari


Riferimenti teorici nell’attività clinica

L’analisi dei fattori di rischio e degli eventi precipitanti utile nella pratica clinica non esaurisce la comprensione del fenomeno “tentato suicidio” che richiede, anche, un’analisi approfondita delle risorse psicologiche del soggetto e dei fattori protettivi che si oppongono ai fattori di rischio.

Gli adolescenti che compiono gesti suicidari sono spesso multiproblematici: i gesti suicidari sono la manifestazione più pericolosa di un profondo e spesso prolungato malessere e di un continuo disadattamento che caratterizza tutti i soggetti.


Il lavoro terapeutico con questi ragazzi richiede un lavoro multi professionale coordinato che sarà descritto nella sezione dedicata agli interventi. Ritroviamo nell’esperienza AMBIT (Adolescent Mentalization-Based Integrative Treatment) (Midgley Nick, Vrouva Ioanna, 2012) suggerimenti e confronti particolarmente utili. I gruppi di lavoro che si ritrovano in AMBIT applicano nella valutazione ed intervento i principi della mentalizzazione (Fonagy et al., 1996, 1998) sia nella relazione con il paziente che nel team di lavoro e nelle relazioni con le agenzie esterne. Non si tratta di un sistema rigido né sul piano teorico né su quello della prassi, ma è aperto alle diverse impostazioni ed approcci con valorizzazione delle risorse ed iniziative di ogni gruppo di lavoro che vi partecipa e del relativo territorio su cui opera. Il contributo più interessante è legato all’attenzione che viene riservata agli adolescenti più problematici, difficili da conoscere e facili ad abbandonare il trattamento. Gli adolescenti più problematici, che manifestano comportamenti suicidari tendono spesso all’autosufficienza (“posso risolvere tutto da solo”) e non si lasciano facilmente coinvolgere in un progetto terapeutico che vada oltre al momento di crisi acuta. Per questa ragione il trattamento si traduce in un facile abbandono del percorso appena superata la fase critica- limite alla possibilità di riprendere un percorso evolutivo adattativo-. (Midgley Nick, Vrouva Ioanna, 2012).

La risorse personali (fattori protettivi), a cui abbiamo acennato prima, rimandano alla considerazione che di fronte ad un medesimo fenomeno possono esserci risposte soggettive diverse da parte degli adolescente a seconda del funzionamento psicologico e quindi della struttura di personalità, del periodo evolutivo e del funzionamento familiare. Un concetto importante a questo riguardo è quello di  resilienza che indica la presenza di risorse personali che, nonostante circostanze difficili permettono all’individuo il loro superamento senza gravi conseguenze psicologiche.
In questa chiave potremmo pensare che un tentativo di suicidio rappresenti il segnale di una limitata  capacità di resilient.


Fonagy descrive questa capacità in termini di “Funzione Riflessiva” e propone, attraverso una scala, la sua quantificazione. Per l’autore un tentativo di suicidio lo si può definire come una alterazione di funzione riflessiva, ossia di quell'insieme di “processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare”. (Fonagy et al., 1997, p. 6)
La funzione riflessiva è, dunque, da intendersi come la capacità di vedere e capire se stessi e gli altri in termini di stati mentali, cioè sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri. Riguarda quindi la capacità di pensare, di compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento. Comprende una componente autoriflessiva ed una componente interpersonale, le quali idealmente forniscono all'individuo la capacità di distinguere sia la realtà interna da quella esterna, sia i processi intrapsichici da quelli interpsichici.
Per quanto riguarda invece la genesi della funzione, Fonagy suggerisce che “la mentalizzazione avviene attraverso l'esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali siano stati "capiti e pensati" grazie a interazioni cariche di affetto con il genitore”.
La sottolineatura della natura "interpersonale" della Funzione Riflessiva  rinvia fortemente al pensiero di Bowlby come pure alle numerose riflessioni di Winnicott circa l'importanza che ha, per lo sviluppo psicologico, la percezione di sé nella mente dell'altro.

Rappresenta anche un punto di contatto con le recenti proposte della psicologia cognitiva e con le scoperte neurofisiologiche dei neuroni a specchio.
Fonagy sottolinea anche l’affinità della sua idea? con quanto proposto da Freud con la teorizzazione del concetto di "Bindung" o legame, a proposito del quale egli, distinguendo tra processi primari e secondari, sottolineava che "Bindung" era al contempo un cambio di qualità da uno stato fisico (immediato) di legame a uno stato psichico. Fonagy sottolinea che anche l'acquisizione della "posizione depressiva", secondo il modello Kleiniano, come pure, secondo quello Bioniano, lo sviluppo della "funzione alfa" (come il necessario passaggio per rendere pensabili eventi interni altrimenti sperimentati come concreti, gli "elementi beta") possono essere considerate analoghe all'acquisizione della funzione riflessiva.
Se verso gli autori citati Fonagy ha un debito teorico per la formulazione del concetto, l’elaborazione della scala per la misurazione della funzione riflessiva segue i recenti studi per l’elaborazione e valutazione dell’attaccamento adulto attraverso la specifica intervista (AAI).


Della relazione tra difficoltà di mentalizzazione e suicidio possiamo trovare  risonanze significative anche in autori che da tempo si occupano di suicidio in età evolutiva.
Infatti, differenti ricercatori sottolineano come una condizione di vita, soggettivamente, percepita come estrema porta al “fallimento” del pensare rendendo possibile il suicidio.


Per Orbach I. questo si determinerebbe attraverso una modificazione degli atteggiamenti verso la vita e la morte. Nucleo intorno al quale si articola la sua ipotesi patogenetica è il “problema irrisolvibile”. La scelta per il suicidio sarebbe nel minore la conseguenza di una dimensione esistenziale caratterizzata dalla assenza di soluzioni, da uno stato di impotenza che lo obbliga a ritenere infinite le sue sofferenze.  Orbach I. propone di valutare come si modifica il pensiero sotto la spinta di prolungate sofferenze attraverso  la scala MAST.

Philippe Jeammet vede il tentativo di suicidio come un esempio di "attacco al corpo", al pari di altre patologie come "l’anoressia, la bulimia, le automutilazioni", verrebbe dunque a configurarsi come "un mezzo di controllo sulla realtà esterna per controinvestire una realtà interna che il soggetto non può controllare, con il ricorso a modalità esclusivamente psichiche".

Per Ladame il tentativo di suicidio consegue ad uno stato di sofferenza che determina una condizione soggettiva di sopraffazione dell’io con minaccia all’identità mentre l’atto si realizza grazie a modalità di pensiero psicotico.

Pommereau intende il tentativo di suicidio in adolescenza come una risposta paradossale, “morire per esistere in un altro modo”, e deriva dalla difficoltà di negoziare i rapporti con la famiglia secondo tre assi: della differenziazione, della delimitazione e della conflittualizzazione.

Gustavo Pietropolli Charmet, poi, sottolineando come nel suicidio ci sia sempre un dolore insopportabile e inesprimibile, di tipo narcisistico, propone come il deficit di resilienza per gli adolescenti suicidari possa essere conseguente a modelli intrafamiliari caratterizzati da un superinvestimento narcisistico ed un sistema educativo fondato sulla vergogna. 
Alla famiglia di adolescenti suicidari sono stati dedicati numerosi studi e la valutazione del suo funzionamento risulta un elemento rilevante anche in termini prognostici.
Le ricerche attuali propongono di valutare due aspetti fortemente collegati: il primo  riguarda le risorse famigliari attuali ed il sostegno che il nucleo è in grado di offrire rispetto ad eventi di vita sfavorevoli che interessano l’adolescente; il secondo riguarda la relazione tra funzionamento famigliare ed acquisizione di adeguate capacità adattive.


Questa seconda dimensione, che apre a riflessioni teoriche più generali, sullo sviluppo della psicopatologia, è al centro della ricerca di autori già citati ma anche del lavoro pionieristico di Mary Ainsworth, Patricia Crittenden, Mary Main e, privilegiando aspetti clinici, degli autori ginevrini  J. Manzano, F. Palacio Espasa e N. Zilkha.
Pur con retroterra teorico differente gli autori citati sottolineano come le capacità adattive del minore siano anche la conseguenza del modello famigliare a cui sono esposti. Il nucleo stesso può essere portatore di elementi traumatici di natura transgenerazionale che lo condizionano contribuendo a determinarne la qualità dell’adattamento.
In particolare P. Crittenden ha sviluppato un modello di valutazione di questi aspetti attraverso una codifica della AAI che origina dalla lunga esperienza dell’autrice con famiglie problematiche e in condizione di psicopatologia. L’autrice, con il suo modello Dinamico Maturativo e l’originale metodo valutativo della AAI, si distingue perché permette di precisare lo stile di attaccamento anche nelle interviste più problematiche.
L’applicazione dell’AAI a tutto il nucleo famigliare nei casi di adolescenti con condotte suicidarie consentirebbe, quindi, di cogliere lo stile di attaccamento o relazionale di base insieme alla presenza di elementi traumatici/lutti irrisolti, permettendo una precisa valutazione sia delle risorse attuali che degli elementi che condizionano il nucleo famigliare e lo sviluppo del minore. Gli autori ginevrini valutano il funzionamento famigliare attraverso l’analisi dei meccanismi di difesa: proiezioni (identificazione proiettiva) dei genitori sui figli, identificazioni complementari, le ragioni che le determinano e la loro espressione psicopatologica.

Ricerche svolte con la AAI in gruppi di adolescenti con condotte suicidarie indicano la prevalenza di interviste non-sicure e la presenza nelle stesse, come caratteristica saliente, di traumi o lutti non risolti.


Cosa è il suicidio: percorsi filosofici, religiosi e letterari


Quello che segue è tratto da un documento che fa parte di una serie di guide destinate a specifici gruppi sociali e professionali particolarmente importanti nella prevenzione del suicidio. Rientra in un’iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), denominata SUPRE (Suicide Prevention).


Nell’accezione comune il suicidio è un atto volontario e intenzionale con cui ci si toglie la vita. Un gesto fatale che, soprattutto, è definitivo, irreparabile. Il suicidio di per sé non è una malattia e nemmeno la manifestazione di una malattia, ma è sicuramente un evento drammatico, un problema di difficile spiegazione, causato da una molteplice interazione tra elementi psicologici, biologici, genetici, sociali e ambientali. È quindi un fenomeno complesso che va letto, osservato e compreso in una chiave altrettanto multidimensionale e pluridisciplinare. Il tentato suicidio è un atto non fatale, fallito a causa dei mezzi utilizzati oppure dell’intervento di circostanze esterne. Questo tentativo viene spesso attuato con determinazione, ma può essere anche solo minacciato o comunicato a scopo dimostrativo e ricattatorio, per richiedere aiuto, per attirare l’attenzione su di sé, per ottenere qualcosa o per suscitare negli altri sensi di colpa. Avere pensieri di morte, di fuga, di sparizione è comune: essi fanno parte del normale processo di crescita, di particolari periodi critici del ciclo di vita di ciascuna persona. Specie durante l’adolescenza, si riflette su problemi esistenziali, nel tentativo di capire il mondo, il significato della vita, la morte. Valutazioni raccolte attraverso numerosi questionari mostrano che più della metà degli studenti della scuola secondaria superiore hanno pensato al suicidio. Inoltre da queste ricerche risulta evidente quanto i giovani abbiano bisogno di discutere e condividere con gli adulti questi temi talmente delicati. Il suicidio in quanto tale è stato oggetto di differenti riflessioni filosofiche, etiche e religiose che, a seconda delle differenti prospettive culturali e storiche, lo hanno considerato un atto illecito e immorale o lecito e doveroso, a conferma della libertà umana di decidere del proprio vivere o morire “secondo ragione”.

Platone lo giudica un insulto agli dei, Aristotele un’ingiustizia contro lo Stato, per Kant è una trasgressione alla legge morale, per Schopenhauer un gesto inutile e contraddittorio (la volontà di vivere entra in conflitto con se stessa). Secondo Jaspers, invece, il suicidio è riconducibile alla complessità della libertà umana, per Freud deriva dall’istinto di morte, secondo la psicoanalista Melanie Klein il suicida riveste il doppio ruolo di vittima e colpevole. Per gli epicurei e gli stoici può essere giustificato dal rifiuto dell’asservimento, per il brahmanesimo è ammesso come pratica cerimoniale. Il Giappone ha una lunga tradizione di suicidi rituali; per gli antichi culti germanici il suicidio cercato in guerra portava al Walhalla, il paradiso dei guerrieri. Ebraismo e cristianesimo lo respingono, l’Islam lo giudica un crimine più grave dell’omicidio. Per Camus è l’unico autentico problema filosofico: “Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta”. Secondo Cioran avere presente la possibilità del suicidio aiuta a reggere l’urto della vita. In campo sociologico, non ci si può dimenticare del contributo di Durkheim che, con la sua monografia sul suicidio, è stato uno dei primi autori a considerarlo come la risultante del grado di integrazione dell’individuo con una particolare e specifica condizione sociale. Nella Bibbia, i casi di suicidio sono molto rari: Saul e il suo scudiero, Ahitofel e Zimri. L’episodio più noto e più importante è quello di Giuda. Dato che se ne possono trarre delle interessanti riflessioni, per le quali ci siamo ispirati ad alcuni interventi di Umberto Galimberti, ci soffermiamo brevemente su questa vicenda. Giuda Iscariota tradisce Gesù consegnandolo ai suoi nemici, ma anche Simone Pietro tradisce Gesù, negando di esserne un discepolo. Entrambi sono presto colti dal rimorso e dalla vergogna, eppure il loro futuro sarà totalmente differente: Giuda si uccide, mentre Pietro diventa uno dei fondatori del cristianesimo. Dove sta il senso di questo esito così difforme del loro tradimento? Giuda è rimasto schiacciato dal peso delle proprie azioni e di fatto, suicidandosi, rinuncia al futuro consegnando tutto se stesso soltanto al passato. Pietro invece si è riappropriato del passato, si apre al futuro ed evita così di restare inchiodato per sempre soltanto alla propria colpa. La morte di Giuda esemplifica forse il principale aspetto negativo del suicidio: con un singolo e irreversibile gesto riduciamo noi stessi al nostro passato, lo consideriamo irrimediabile, abdichiamo a ogni possibilità di rielaborarlo e vi poniamo soltanto la parola fine. Invece “Il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora. Esiste solo il momento presente, da adesso in poi” (Daisaku Ikeda). Sono innumerevoli i personaggi letterari che muoiono suicidi.

Per un eventuale approfondimento didattico, ne elenchiamo alcuni: Jacopo Ortis di Foscolo, Romeo di Shakespeare, Anna Karenina di Tolstoj, Ivan Karamazov di Dostoevski, Didone di Virgilio, Pier Delle Vigne in Dante, Fedra di Euripide, Madame Bovary di Flaubert, Athos Fatigati negli “Occhiali d’oro” di Bassani, Rosetta nelle “Tre donne sole” di Pavese, Alfonso Nitti nella “Vita” di Svevo, Alia ne “L’Imperatore –Dio di Dune” di Herbert, Julia Regajev nel “Responsabile delle risorse umane” di Yehoshua, Aldo Nuti nei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” di Pirandello, Martin Eden di London, il professore ne “L’ultima ora” di Dufossè, Giacomo nella “Romana” di Moravia, l’anonimo protagonista dell’ “Horlà” di Maupassant, l’io narrante della “Lettera a una signorina a Parigi” di Cortàzar, il robot che vuole dimostrarsi umano nel “Guardiano della muraglia” di Silverberg. Per la sua grande rilevanza, anche storica, accenniamo soprattutto ai “Dolori del giovane Werther” di Goethe. Il protagonista del romanzo, provato da una cocente delusione amorosa, decide di porre fine alla propria vita, e dopo l’uscita del libro (1774), le cronache dell’epoca registrarono un’impressionante serie di suicidi che per movente e modalità rimandavano in maniera pressoché inequivocabile al romanzo di Goethe. Da allora, il fenomeno dell’emulazione (chiamato “effetto Werther”) è sotto costante esame degli osservatori del suicidio e dagli studi effettuati risulta un chiaro nesso tra la risonanza data alle notizie riguardanti i suicidi e le condotte di tipo imitativo.