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Comprensione fenomeno
   

Sappiamo come ogni tentativo di suicidio in età evolutiva sia la manifestazione di una condizione estrema e complessa determinata dall’intreccio di eventi precipitanti, fattori di rischio, psicopatologia, risorse psicologiche personali e famigliari.
Poiché il primo obbiettivo nei casi di tentato suicidio è quello di abbassare il rischio suicidario, ovvero la ripetizione del gesto, è prioritario individuare ed affrontare, nell’intreccio, gli aspetti di maggiore problematicità.
Molti studi dedicati ai comportamenti suicidari considerano i fattori di rischio e la psicopatologia in primo piano nella  patogenesi. I fattori di rischio indagati  si possono riassumere in: eventi traumatici (abuso sessuale, maltrattamento, lutto, altri traumi) e condizioni ambientali sfavorevoli (presenza di psicopatologia in un genitore, conflittualità intrafamigliare); i disturbi psicopatologici più frequentemente evidenziati sono: Disturbo Depressivo, Disturbi del Comportamento Alimentare, Abuso di Sostanze, Disturbi Dissociativi e varie forme di Disturbi Psicotici.
L’analisi dei fattori di rischio, eventi precipitanti, psicopatologia, utile nella pratica clinica non esaurisce la comprensione del fenomeno “tentato suicidio” che richiede anche una analisi approfondita delle risorse psicologiche del soggetto. E’ noto come di fronte ad un medesimo fenomeno ci siano risposte soggettive diverse da parte dell’adolescente a seconda del funzionamento psicologico e quindi della struttura di personalità, del periodo evolutivo e del funzionamento familiare. Un concetto importante a questo riguardo è quello di  resilienza che indica la presenza di risorse personali che, nonostante circostanze difficili permettono all’individuo il loro superamento senza gravi conseguenze psicologiche.
In questa chiave potremmo pensare che un tentativo di suicidio rappresenti il segnale di una limitata  capacità di resilient.
Fonagy descrive questa capacità in termini di “Funzione Riflessiva” e propone, attraverso una scala, la sua quantificazione. Per l’autore un tentativo di suicidio lo si può definire come una alterazione di funzione riflessiva, ossia di quell'insieme di “processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare”. (Fonagy et al., 1997, p. 6)
La funzione riflessiva è, dunque, da intendersi come la capacità di vedere e capire se stessi e gli altri in termini di stati mentali, cioè sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri. Riguarda quindi la capacità di pensare, di compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento. Comprende una componente autoriflessiva ed una componente interpersonale, le quali idealmente forniscono all'individuo la capacità di distinguere sia la realtà interna da quella esterna, sia i processi intrapsichici da quelli interpsichici.
Per quanto riguarda invece la genesi della funzione, Fonagy suggerisce che “la mentalizzazione avviene attraverso l'esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali siano stati "capiti e pensati" grazie a interazioni cariche di affetto con il genitore”.
La sottolineatura della natura "interpersonale" della Funzione Riflessiva  rinvia fortemente al pensiero di Bowlby come pure alle numerose riflessioni di Winnicott circa l'importanza che ha, per lo sviluppo psicologico, la percezione di sé nella mente dell'altro.
Rappresenta anche un punto di contatto con le recenti proposte della psicologia cognitiva e con le scoperte neurofisiologiche dei neuroni a specchio.
Fonagy sottolinea anche l’affinità della sua idea? con quanto proposto da Freud con la teorizzazione del concetto di "Bindung" o legame, a proposito del quale egli, distinguendo tra processi primari e secondari, sottolineava che "Bindung" era al contempo un cambio di qualità da uno stato fisico (immediato) di legame a uno stato psichico. Fonagy sottolinea che anche l'acquisizione della "posizione depressiva", secondo il modello Kleiniano, come pure, secondo quello Bioniano, lo sviluppo della "funzione alfa" (come il necessario passaggio per rendere pensabili eventi interni altrimenti sperimentati come concreti, gli "elementi beta") possono essere considerate analoghe all'acquisizione della funzione riflessiva.
Se verso gli autori citati Fonagy ha un debito teorico per la formulazione del concetto, l’elaborazione della scala per la misurazione della funzione riflessiva segue i recenti studi per l’elaborazione e valutazione dell’attaccamento adulto attraverso la specifica intervista (AAI).
Della relazione tra difficoltà di mentalizzazione e suicidio possiamo trovare  risonanze significative anche in autori che da tempo si occupano di suicidio in età evolutiva.
Infatti, differenti ricercatori sottolineano come una condizione di vita, soggettivamente, percepita come estrema porta al “fallimento” del pensare rendendo possibile il suicidio.
Per Orbach I. questo si determinerebbe attraverso una modificazione degli atteggiamenti verso la vita e la morte. Nucleo intorno al quale si articola la sua ipotesi patogenetica è il “problema irrisolvibile”. La scelta per il suicidio sarebbe nel minore la conseguenza di una dimensione esistenziale caratterizzata dalla assenza di soluzioni, da uno stato di impotenza che lo obbliga a ritenere infinite le sue sofferenze.  Orbach I. propone di valutare come si modifica il pensiero sotto la spinta di prolungate sofferenze attraverso  la scala MAST.
Philippe Jeammet vede il tentativo di suicidio come un esempio di "attacco al corpo", al pari di altre patologie come "l’anoressia, la bulimia, le automutilazioni", verrebbe dunque a configurarsi come "un mezzo di controllo sulla realtà esterna per controinvestire una realtà interna che il soggetto non può controllare, con il ricorso a modalità esclusivamente psichiche".
Per Ladame il tentativo di suicidio consegue ad uno stato di sofferenza che determina una condizione soggettiva di sopraffazione dell’io con minaccia all’identità mentre l’atto si realizza grazie a modalità di pensiero psicotico.
Pommereau
intende il tentativo di suicidio in adolescenza come una risposta paradossale, “morire per esistere in un altro modo”, e deriva dalla difficoltà di negoziare i rapporti con la famiglia secondo tre assi: della differenziazione, della delimitazione e della conflittualizzazione.
Gustavo Pietropolli Charmet, poi, sottolineando come nel suicidio ci sia sempre un dolore insopportabile e inesprimibile, di tipo narcisistico, propone come il deficit di resilienza per gli adolescenti suicidari possa essere conseguente a modelli intrafamiliari caratterizzati da un superinvestimento narcisistico ed un sistema educativo fondato sulla vergogna. 
Alla famiglia di adolescenti suicidari sono stati dedicati numerosi studi e la valutazione del suo funzionamento risulta un elemento rilevante anche in termini prognostici.
Le ricerche attuali propongono di valutare due aspetti fortemente collegati: il primo  riguarda le risorse famigliari attuali ed il sostegno che il nucleo è in grado di offrire rispetto ad eventi di vita sfavorevoli che interessano l’adolescente; il secondo riguarda la relazione tra funzionamento famigliare ed acquisizione di adeguate capacità adattive.
Questa seconda dimensione, che apre a riflessioni teoriche più generali, sullo sviluppo della psicopatologia, è al centro della ricerca di autori già citati ma anche del lavoro pionieristico di Mary Ainsworth, Patricia Crittenden, Mary Main e, privilegiando aspetti clinici, degli autori ginevrini  J. Manzano, F. Palacio Espasa e N. Zilkha.
Pur con retroterra teorico differente gli autori citati sottolineano come le capacità adattive del minore siano anche la conseguenza del modello famigliare a cui sono esposti. Il nucleo stesso può essere portatore di elementi traumatici di natura transgenerazionale che lo condizionano contribuendo a determinarne la qualità dell’adattamento.
In particolare P. Crittenden ha sviluppato un modello di valutazione di questi aspetti attraverso una codifica della AAI che origina dalla lunga esperienza dell’autrice con famiglie problematiche e in condizione di psicopatologia. L’autrice, con il suo modello Dinamico Maturativo e l’originale metodo valutativo della AAI, si distingue perché permette di precisare lo stile di attaccamento anche nelle interviste più problematiche.
L’applicazione dell’AAI a tutto il nucleo famigliare nei casi di adolescenti con condotte suicidarie consentirebbe, quindi, di cogliere lo stile di attaccamento o relazionale di base insieme alla presenza di elementi traumatici/lutti irrisolti, permettendo una precisa valutazione sia delle risorse attuali che degli elementi che condizionano il nucleo famigliare e lo sviluppo del minore. Gli autori ginevrini valutano il funzionamento famigliare attraverso l’analisi dei meccanismi di difesa: proiezioni (identificazione proiettiva) dei genitori sui figli, identificazioni complementari, le ragioni che le determinano e la loro espressione psicopatologica.

Ricerche svolte con la AAI in gruppi di adolescenti con condotte suicidarie indicano la prevalenza di interviste non-sicure e la presenza nelle stesse, come caratteristica saliente, di traumi o lutti non risolti.