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La rappresentazione del suicidio nel cinema
   

Utilizziamo, per questa presentazione, in gran parte, l'interessante articolo di Marchiori E., Marchesini L., Colombo N.M., Colombo G. dal titolo "La rappresentazione del suicidio nel cinema" (sAS N. 11/200.8) reperito in internet; chi desiderasse scaricarlo per leggerlo integralmente lo può fare anche a attraverso questo link: "La rappresentazione del suicidio nel cinema.pdf"

Link ad alcune schede di film che espressamente fanno riferimento a gesti autolesivi in età evolutiva

 


Introduzione
In questi ultimi anni il tema del rapporto tra cinema, psichiatria e psicoanalisi, tra immagini filmiche e sofferenza mentale, si è arricchito di contributi innovativi e significativi, l’interesse per questo campo è in continua evoluzione ed è caratterizzato da grande vivacità.
Psichiatria e cinema sono cresciuti insieme, come affermano i Gabbard (1999), e figure professionali che si occupano di disagio psichico hanno preso atto che “il cinema, in maniera ormai del tutto naturale, divulga, sintetizza, esemplifica e spezza il pane della sua scienza come nessun altro mezzo comunicativo” (Brunetta, 2006, p. 48).
Superata la tendenza ad interpretare i film o la personalità dei registi attraverso teorie psicoanalitiche o psicopatologiche, si è assistito ad una “trasformazione in senso interdisciplinare del dialogo tra le due culture” (Sabbadini, 2006, p. 9).
Le immagini e le storie che i film raccontano ci permettono di esplorare territori della
mente e degli affetti dove è molto difficile addentrarsi se non attraverso una mediazione.
L’ampio utilizzo di film in diversi ambiti culturali e didattici dimostra le straordinarie potenzialità conoscitive e divulgative di questo strumento di rappresentazione, cui tuttavia, nel caso dei comportamenti suicidari, si affianca la possibilità di proporre modelli stereotipati e fuorvianti con il rischio, soprattutto nei giovani, di far emergere tendenze imitative (il cosiddetto “effetto Werther”).
L’intento di questo lavoro è mettere in luce come il cinema possa diventare un mezzo attraverso il quale è possibile affrontare questioni riguardanti il disagio psicologico scottanti e difficili da comprendere ed accettare, come il suicidio, per la complessità dei fattori psicologici, biologici e sociali che lo determinano.
Prendendo avvio da alcune fondamentali evidenze psicopatologiche, in questo lavoro viene proposta una filmografia che offre, senza pretese di esaustività, una panoramica di come il cinema ha rappresentato il fenomeno del suicidio. Abbiamo individuato, per chiarezza di esposizione, tre ampie categorie, pur embricate tra loro: “suicidio e disturbi mentali”, “suicidio e crisi”, “suicidio e società”. Per ognuna è stato scelto e trattato più approfonditamente il film che ci è parso più significativo ed evocativo per il tema in questione.

Suicidio e disturbi mentali
Il suicidio è frequentemente associato a disturbi mentali gravi, quali i disturbi dell’umore (depressione e disturbi bipolari), la schizofrenia, alcuni disturbi di personalità e abuso/dipendenza da sostanze.
Secondo la letteratura (De Leo et al, 1999) i disturbi dell’umore sono la patologia a rischio suicidario più elevato.
Il film The Hours (S. Daldry, 2002), ampiamente discusso in seguito, coglie tutti gli aspetti più importanti della depressione maggiore. Un’opera particolarmente originale e toccante è Un’ora sola … ti vorrei, di A. Marazzi (2002), che racconta, attraverso il montaggio di filmini amatoriali girati dal nonno, la storia della propria famiglia ed in particolare della madre,sofferente di un grave disturbo dell’umore di tipo bipolare, morta suicida all’età di 33 anni, quando lei era bambina (vedi Goisis, 2006). In questo film vengono messi in rilievo soprattutto gli aspetti depressivi del disturbo bipolare, mentre nei film Una moglie (J. Cassavetes, 1974) e Mr. Jones (M. Figgis, 1993) viene dato più ampio spazio alla rappresentazione della fase maniacale.
Nei disturbi schizofrenici, le fasi più a rischio di comportamenti suicidari sono quelle di remissione dei sintomi floridi, quando il paziente assume maggiore consapevolezza del suo stato di malattia.
Nelo Risi, con Diario di una schizofrenica (1968), sceneggiato con la collaborazione dello psicoanalista F. Fornari, mostra come da un tentativo di suicidio possa prendere avvio una terapia che ridia senso all’esistenza. In La ragazza di Trieste (P. Festa Campanile, 1982) la protagonista si uccide per sfuggire alla solitudine e all’abbandono determinati dalla sua grave malattia (Pavan, 2006). Altri film sul rapporto tra suicidio e disturbi schizofrenici sono Follia (W.S. Van Dyke, 1941), che descrive la storia di un industriale paranoico che sviluppa un delirio di gelosia nei confronti del suo migliore amico fino a farlo incriminare per il proprio suicidio, Brama di vivere (V. Minelli, 1956) e Van Gogh (M. Pilat, 1991), che entrambi raccontano l’ultima fase della vita del grande artista morto suicida. Collegato ad un delirio erotomanico in disturbo delirante possiamo citare il film M’ama, non m’ama (L. Colombani, 2002) in cui la giovane prima sembra abbozzare un suicidio dal ponte e poi agisce un nuovo TS col gas.
Per quanto concerne i disturbi di personalità, soprattutto i tratti borderline, narcisistici e antisociali determinano una particolare fragilità nella gestione emotiva dei vissuti di perdita, separazione e cambiamento, con un aumentato rischio di comportamenti suicidari rispetto alla popolazione generale, anche per la frequente comorbidità con altri disturbi, quali quelli dell’umore e di dipendenza (De Leo et al, 1999). Ragazze interrotte (J. Mangold, USA, 1999) è indubbiamente uno dei film più significativi in questo sensoLa protagonista è un’adolescente che, dopo un tentativo di suicidio, viene diagnosticata come “borderline” e ricoverata in una casa di cura, dove il confronto con altre pazienti e l’incontro con una terapeuta daranno una svolta alla sua esistenza.
Del gruppo di adolescenti, è una giovane bulimica a togliersi la vita, impiccandosi in casa dopo la dimissione. Riguardo quest’ultimo tema, ricordiamo che i disturbi del comportamento alimentare vengono descritti come patologie caratterizzate da un’alta frequenza di pensieri ed atti suicidari, anche se caratterizzati da basso rischio di letalità (Favaro et al, 2006).
Tratti borderline, antisociali e schizoidi emergono nei protagonisti di Partner (B. Bertolucci, Italia, 1968), Arizona dream (E. Kusturica, USA, 1993), Full Metal Jacket (S. Kubrick, 1987), Fight Club (D. Fincher, 1999) e Le particelle elementari (O. Roehler, 2006), tratto dall’omonimo bestseller di M. Houellebecq.
Tratti narcisistici si possono evidenziare invece nei protagonisti del capolavoro di F. Truffaut, Jules e Jim (1961) e di La meglio gioventù (M. T. Giordana, 2003)
Fuoco fatuo (L. Malle, 1963) e Via da Las Vegas (M. Figgis, USA, 1995) raccontano, con stili molto diversi, la lucida volontà suicidaria di due alcolisti. The hours, tratto dall’omonimo romanzo di M. Cunningham, premio Pulitzer nel 1999, il film racconta la storia di tre donne che in tre diverse epoche condividono la triste esperienza di sentirsi estranee alla propria vita.
La prima è Virginia Woolf (N. Kidman) che, nel 1923, gravemente sofferente di depressione, si trova confinata in una tenuta di campagna, dove porrà fine alla propria vita annegandosi dopo aver concluso il suo ultimo romanzo, “Mrs Dalloway”. La seconda donna è Laura Brown (J. Moore) e la sua storia è ambientata in America, negli anni ’50. Laura, incinta del secondo figlio, vive in una situazione di tale distacco emotivo rispetto alla vita apparentemente senza problemi che conduce, da essere attratta ad emulare la protagonista del romanzo della Woolf, che sta leggendo. Si rinchiude in una stanza d’albergo con un flacone di pillole, sognando di morire ma senza riuscire a farlo. Abbandona così il figlio ed il marito per vivere il resto della vita in solitudine.
Questo figlio (E. Harris), come ci mostra il film, diventerà un poeta, si ammalerà di AIDS e morirà gettandosi dalla finestra, nonostante le sollecite cure di Clarissa (M. Streep), la terza protagonista del film, sua ex-compagna, che lui stesso ha soprannominato “Mrs Dalloway”.
Il regista ci propone subito il suicidio di Virginia Woolf e, attraverso la tecnica flash back, la scrittrice ci appare con un’espressione triste, lo sguardo cupo e spento, isolata nella sua stanza presa dai suoi pensieri e con la sigaretta sempre accesa, incapace di relazionarsi con gli altri, schiacciata dal senso di inadeguatezza e di colpa. Queste immagini riflettono fedelmente il quadro di una sintomatologia depressiva grave, la stessa di cui soffrono anche Laura ed il figlio. Clarissa è la sola a riuscire ad affrontare le vicissitudini della vita, attraverso una modalità difensiva di tipo ipomaniacale.
Il film mette in gioco diverse problematiche associate al suicidio, come la presenza di una malattia grave e l’isolamento sociale, la gravidanza, la trasmissione intergenerazionale del suicidio, connessa a fattori familiari e genetici (De Leo et al, 1999).
Suicidio e “crisi”
Il concetto di crisi attraversa trasversalmente l’ambito della normalità e quello della psicopatologia. Nel corso dell’esistenza, ogni individuo si confronta continuamente con esperienze di discontinuità, di cambiamento, di perdita. Esse, di norma, vengono superate attraverso assestamenti più o meno consapevoli tra individuo ed ambiente, con la tendenza a mantenere conservata la percezione di un senso di continuità e di sviluppo uniformi.
La psicologia e la clinica dello sviluppo hanno ricondotto il concetto di crisi alla nozione di ciclo della vita, per indicare i fenomeni fisiologici di disorganizzazione caratteristici delle fasi di passaggio durante la crescita psicobiologica dell’individuo, quali prima e seconda infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia (Erickson, 1959). Questi sono bene rappresentati nei film Splendore nell’erba (E. Kazan, 1961), Harold e Maude (H. Hahby, 1972), Il sapore della ciliegia (A. Kiarostami, 1997) e Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 1999), discusso in seguito.
La scuola fenomenologica ha introdotto l’anello di unione tra crisi esistenziali e crisi psichiatriche, tentando di sottrarre la malattia mentale al cerchio chiuso della patogenesi kraepeliniana (Andreoli et al., 1995).
Il concetto di crisi emozionale (Marchiori, 2000; Pavan, 2003) rimanda a particolari situazioni psicologiche in cui un evento drammatico irrompe nella vita di un individuo. Si può trattare della morte, anche per suicidio, di una persona cara, come in Gente Comune (R. Redford, 1980), L’ultimo dei mohicani (M. Mann, 1992), Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 1999), Zatoichi (T. Kitano, 2003); oppure di rotture affettive vissute in maniera traumatica come in Estasi (G. Machaty, 1933), Sedotta e abbandonata (P. Germi, Italia, 1963), Madame Bowary (C. Chabrol, Francia, 1991), Follia (M. MacKenzie, 2005), L’enfer (D. Tanovic, 2006) e Dolls (T. Kitano, 2002); o, ancora, traumi sessuali, come in Vaghe stelle dell’orsa (L. Visconti, 1965) e Il danno (L. Malle, 1992); infine, gravi malattie, come l’AIDS, trattato nei film Una gelata precoce (J. Erman, 1985) e il già citato The Hours. Ricordiamo anche due opere che ben rappresentano il problema dell’eutanasia: Le invasioni barbariche (D. Arcand, 2003) e Mare dentro (A. Amenabar, 2004).
La crisi può essere tuttavia scatenata, oltre che da eventi traumatici esterni, anche da motivazioni esclusivamente interiori: in questo caso il suicidio viene inteso come l’unica via d’uscita davanti alla difficoltà di operare una scelta o di accettare una separazione (Pavan, 2006). Ne sono esempi opere come La signora della porta accanto (F. Truffaut, Francia, 1981), Inseparabili (D. Cronenbergh, 1988), Il marito della parrucchiera (P. Leconte, Francia, 1990), Femmina folle (J.M. Stahl, 1945).
Alcuni film trattano di crisi che mettono in discussione il ruolo professionale, in particolare in ambito psicoterapico, come L’immagine allo specchio (J. Bergman, 1975) e Primi amori (J. Tewkesbury, 1979).
Ricordiamo infine il film Sotto la sabbia (F. Ozon, 2000), che affronta le reazioni di chi sopravvive alla morte per suicidio di un proprio caro, che inevitabilmente mette in discussione profondamente le fondamenta della persona ed il senso della propria esistenza (Pavan, 2006).
Il giardino delle vergini suicide
Le cinque sorelle Lisbon, tra i tredici e diciassette anni, belle ed affascinanti, sono le protagoniste della tragica storia di questo film, ispirata ad un romanzo di J. Eugenides, che evidenzia la complessità dei fattori che possono indurre un gesto suicidarlo nell’età dell’adolescenza.
La madre (K. Turner) impone alle figlie un’esasperata rigidità moralistica e sessuofobica, che il padre (J. Woods), figura priva di consistenza ed autorità, riflette in modo automatico, così l’intera famiglia vive isolata rispetto al mondo esterno. Le ragazze sembrano adattarsi ai desideri della madre, fino a quando il loro disagio viene espresso in modo drammatico dall’atto estremo della più giovane, Cecilia (H. Hall), che si toglie la vita dopo un tentativo di suicidio. Quest’atto è incompreso dai genitori e sottovalutato dallo psichiatra che parla con Cecilia, consigliando che le sorelle abbiano maggiori relazioni sociali.
Alla morte di Cecilia sorelle e genitori rispondono chiudendosi nel silenzio, incapaci ad esprimere e condividere qualsiasi tipo di sentimento. I genitori tuttavia si sforzano di ascoltare le indicazioni dello psichiatra e permettono alle figlie di recarsi al ballo della scuola.
Quella sera Lux (K. Dunst), la maggiore, perde la sua verginità in modo traumatico: il ragazzo che sino a quel momento diceva di amarla la abbandona. Quando le ragazze rientrano la madre le punisce duramente, fino al punto di segregarle in casa.
La conclusione del film è dolorosa: anche le quattro sorelle seguiranno il destino di Cecilia, impiccandosi nella loro casa.
La giovane regista riesce a raccontare in modo sconvolgente e conturbante le vicissitudini di un’adolescenza che non può esprimere le sue potenzialità evolutive di scoperta di sé e degli altri per l’incapacità dei genitori ad accoglierle e comprenderle. Il primo tentativo di suicidio di Cecilia avviene attraverso il taglio superficiale dei polsi, indicatore di profonda ambivalenza rispetto all’intenzionalità autosoppressiva. Un atto di questo tipo oltre ad una funzione catartica di liberazione dell’aggressività, può avere una funzione comunicativa, di messaggio che è una richiesta di aiuto. Nella storia rappresentata nel film tali funzioni non possono essere accolte e sfociano nel gesto definitivo di Cecilia, seguito da quello delle sorelle. Questa evoluzione può essere frutto di fattori imitativi (il cosiddetto “effetto Werther”) e di estrema ribellione e vendetta contro la violenza delle reazioni materne: “Se non c’è un luogo possibile di mediazione vince una patologia distruttiva” e “le parti interne violente schizzano ovunque” (Ravasi Bellocchio, 2003, p. 152).
Suicidio e società
Come è noto già nel 1897 Durkheim, in ottica sociologica, ha descritto quattro forme di suicidio a coppie antitetiche: altruistico-egoistico e fatalistico-anomico.
Nella prima coppia ad un polo l’atto suicidario è condizionato in maniera decisiva da pressioni ideologiche e culturali che sembrano negare l’individualità della persona mentre, al polo opposto lo stesso atto è determinato da un eccesso di individualismo, che fa sfumare il senso di appartenenza alla comunità. Nella seconda coppia, ad un estremo si assiste ad una esagerata pressione di regole e norme che il singolo non è in grado di sostenere, dall’altro, il suicidio è frutto di una difficoltà del soggetto a tollerare momenti di transizione socio-culturale che comportino un cambiamento dei sistemi di valore e una perdita dei punti di riferimento.
Di questi quattro tipi di suicidio, quello altruistico, fatalistico e anomico sembrano essere correlati prevalentemente a fattori esterni (ambientali e socio-culturali), mentre quello egoistico sembra maggiormente indotto da fattori interni (psicologici e psicopatologici), anche se solitamente si evidenziano fattori multipli in interazione tra loro, come nel caso in cui situazioni particolari di solitudine, rifiuto o emarginazione finiscono per provocare insanabili ferite narcisistiche.
Il cinema sembra aver focalizzato maggiormente la propria attenzione sui comportamenti suicidari di tipo egoistico, di cui si è già discusso nell’ambito dei disturbi mentali e delle situazioni di crisi, e su quelli di tipo altruistico (soprattutto la filmografia orientale), tra i quali si possono distinguere, schematicamente:
– i comportamenti indotti dall’adesione a specifiche ideologie, come il fenomeno dei kamikaze di cui è esemplare il film, commentato in seguito, Paradise Now (H. Abu-Assad, 2005) e quelli determinati dal rispetto dei costumi della società di appartenenza (vedi Festari et al, 2005), o da norme imposte da valori superiori, come nel film Mishima (P. Schrader, 1985);
– i comportamenti condizionati da situazioni socio-economiche quali la povertà, come ben rappresentato in film quali Umberto D. (V. De Sica, 1952) o La ballata di Narayama (S. Imamura, 1983), dal romanzo di Shichiro Fukazawa, già portato sullo schermo nel 1958 con La leggenda di Narayama (K. Kinoschita);
– i comportamenti collegati alla necessità di salvaguardare l’onore personale, della famiglia o del gruppo di appartenenza, valori ben rappresentati in opere quali Genroku Chushingua - La vendetta dei 47 ronin (I. Imagaki, 1962), Harakiri (M. Kobayashi, 1962), L’ultimo samurai (E. Zwick, 2003) e Lettere da Iwo Jima (C. Eastwood, 2006).
Decisamente meno frequenti risultano essere i film che alludono a comportamenti suicidari di tipo anomico o di tipo fatalistico.
Per quanto riguarda questi ultimi, l’atto suicidario esprime, anche in senso metaforico, una volontà estrema di ribellione nei confronti delle imposizioni, restrizioni e stereotipi della società di appartenenza. In questo filone risultano emblematiche opere come La grande abbuffata (M. Ferreri, 1973), Jules e Jim (F. Truffaut, 1981), Thelma & Louise (R. Scott, 1991), L’attimo fuggente (P. Weir, 1989), Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 1999), Splendore sull’erba (E. Ekazan, 1961) ed infine Parla con lei (P. Almodovar, 2001).

Pochi sono i film che affrontano temi che alludono all’impossibilità del singolo di affrontare momenti di transizione e crisi sociale, tra i quali possiamo citare il lavoro del regista coreano Kim Ki-Duk Address unknown (2001) e il suicidio di un Burt Lancaster ormai anziano in Novecento atto I (B. Bertolucci, 1976).

Paradise now
La vicenda racconta le vicissitudini vissute negli ultimi due giorni prima di diventare “martiri di Allah” da due giovani palestinesi, per vendicare la morte di un connazionale. Il film è ambientato a Nablus, sulla striscia di Gaza. Khaled (Ali Suleiman) e Said (Kais Nashef) sembrano due giovani qualunque, amici d’infanzia, e lavorano presso una carrozzeria. Entrambi hanno due vite senza speranza, senza dignità, senza una terra: come dicono loro stessi, “sono morti da tempo”. Possono pensare solo ad una vita migliore nel paradiso, convinti che la loro morte possa valere per combattere la loro causa.
Said, inoltre, soffre il peso della vergogna di essere rimasto orfano a dieci anni del padre, ucciso con l’accusa di essere un collaborazionista degli israeliani. È lui stesso a parlarne a Suha (Lubna Azabal), la ragazza di cui si sta innamorando, figlia di un eroe della resistenza palestinese da poco tornata in patria dopo aver studiato a Parigi. È da lei che, con un pretesto, si reca la notte prima del gesto suicida: inutilmente la ragazza cerca di convincerlo che la vita è meglio di una morte inutile e che si debbano trovare delle soluzioni non violente.
Said e Khaled vengono preparati per la missione: imbottiti di esplosivo, incoraggiati dal racconto di storie di martiri ed eroi amati da tutti e invitati a recitare il loro “testamento” ai familiari davanti ad una telecamera.
Vengono poi condotti al confine, ma qualcosa non procede secondo i piani e i due amici, costretti a fuggire, si perdono di vista, aggirandosi per le strade come bombe umane incapaci di disinnescarsi. Solo Khaled raggiunge i compagni, quindi si mette alla disperata ricerca di Said, ritrovato sulla tomba del padre. Tornati al quartier generale, solo a Khaled viene ancora concessa la possibilità di decidere; ma il regista riserva uno spettacolare colpo di scena: Khaled ha cambiato idea, mentre Said corre da solo verso la morte.
La grande novità del film del regista palestinese Abu-Assad, come scrive R. Nepoti (La Repubblica, 15 ottobre 2005) “non sta nei contenuti, quanto piuttosto da una macchina da presa piazzata all’interno del terrorismo palestinese, con l’effetto di mostrarci come persone in carne, ossa e sentimenti coloro che fa comodo percepire come pericolose astrazioni”.
Le motivazioni che spingono i due protagonisti al martirio rimandano a quelle descritte nel “suicidio altruistico”: la fede in Allah, continuamente ricordata dalla ridondanza di espressioni del genere “se dio vuole”, la situazione socio-economica, la necessità di salvaguardare l’onore personale e della propria famiglia.
A Nablus si vive solo nella speranza di una vita migliore dopo la morte e questo sarà concesso solo a chi avrà onorato il proprio popolo. “La vita senza dignità è nulla” dice Said “specie se te lo ricordano giorno dopo giorno, umiliandoti e insultandoti”. Il riscatto può avvenire tramite il riconoscimento, anche attraverso la morte, del proprio coraggio e della propria grandezza.
Tuttavia, come scrive Tatarelli (1995) “nel linguaggio comune l’illusione significa «un credere» in un di più o un «credersi» di più o, ancora avere un «potere» di più: indica comunque un’idea erronea per esasperazione, inattuabile e irrealistica, che trova la sua definizione solo per ciò che viene dopo: «la delusione»” (p. 65).

Bibliografia
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