riportiamo in larga misura un articolo pubblicato su Imago (1997, 2, 141-166) dal titolo:
Key words: childhood, adolescence, suicide attempts, suicide prevention,
treatment
Parole chiave: infanzia, adolescenza, tentato suicidio, prevenzione,
trattamento.
Riassunto
Al fine di compiere una ricognizione aggiornata del problema del tentato
suicidio e del suicidio attuati in età evolutiva vengono analizzati
più di 150 articoli apparsi su riviste scientifiche nazionali
ed internazionali.
Da questa analisi emerge come il tentato suicidio compiuto da
soggetti di età inferiore a 18 anni sia un fenomeno esistente, di
notevole entità ma poco conosciuto ed esplorato, soprattutto nel
nostro Paese.
Della letteratura presa in considerazione vengono in particolare focalizzati
e discussi i fattori di rischio e quelli precipitanti il comportamento
suicidario nonché le diverse ipotesi etiopatogenetiche avanzate
al riguardo.
Vengono inoltre presentate alcune strategie di prevenzione e vengono
discussi alcuni approcci terapeutici ai soggetti interessati
e alle loro famiglie.
Summary
An analysis of current national and international scientific literature
covering over 150 different articles was carried out in order
to offer an up to date review of the issue of suicidal behaviour in childhood
and early adolescence.
What emerges from this analysis is that the problem of
suicidal attempts at an early age truly exists and is a wide ranging phenomenon
although it is little studied in our Country.
During the review, several risk and precipitating factors are stressed;
different etiopathogenetic theories are also considered. Finally,
prevention strategies are presented and different therapeutic interventions
are discussed.
L’aumento del tentato suicidio in età evolutiva che si registra
in tutti i paesi industrializzati ne ha fatto un problema di primaria importanza,
tanto che dal 1989 è considerato negli Stati Uniti un problema nazionale
di salute mentale.(1)
Quanto il fenomeno sia aumentato emerge con evidenza considerando
che il tasso specifico di suicidio nel 1950 tra giovani della fascia di
età 14-24 anni negli USA era di 4,5 per 100,000, mentre nello stesso
gruppo, nel 1990, esso si era triplicato raggiungendo il 13.2 per 100,000.(2)
Più in particolare per quel che riguarda il tentato suicidio,
da ricerche svolte tramite self-report si ricavano percentuali per gli
adolescenti comprese tra il 7 ed il 9%. Questi dati sono confermati da
quanto segnalato dallo statunitense Center for Disease Control and Prevention
(3) che indica come più del 8% di studenti della
scuola media superiore abbia compiuto un tentativo di suicidio e come il
2% abbia per questo richiesto cure mediche.
Mentre sono numerose le indagini rivolte agli adolescenti di età
superiore ai 15 anni, sono invece scarse e dichiaratamente approssimative
in difetto le informazioni epidemiologiche, psicologiche, sociali per l’età
inferiore.
Va per altro sottolineato come seppure poco numerose, queste ricerche
confermino come sia alta la percentuale non solo di tentati suicidi ma
anche di suicidi in questa fascia di età che vengono registrati
come incidenti (4). I dati che riportiamo di seguito per
quanto impressionanti, devono pertanto ritenersi solo indicativi o rappresentanti
la punta di un iceberg. Nel corso del 1991, ben 266 bambini tra 5 e 14
anni si sono suicidati negli Stati Uniti (5); questo
riflette un tasso specifico di suicidio per l’età considerata di
0,7 per 100,000 e rappresenta per lo stesso gruppo di età
la settima causa di morte (6,7)
Per la stessa fascia di età (5-14 anni) è stata indagata
anche l’ideazione suicidaria che risulta compresa tra 6,6%8 e 26%9, mentre
la percentuale del tentato suicidio sarebbe compresa tra 2,8% (8)
e 3,4% (9).
Ancora fra i 5 e 14 anni viene segnalata per i soggetti in trattamento
psichiatrico ambulatoriale al momento del tentato suicidio, una prevalenza
del 20,5% per ideazione suicidaria e 12,8% per tentato suicidio, che sale
rispettivamente al 52,3% e al 26,2% quando vengono coinvolti nell’indagine
epidemiologica minori ricoverati in reparti psichiatrici (10,11).
I dati ora riportati, di provenienza statunitense e relativi a bambini
e preadolescenti, sono sicuramente drammatici; come vedremo, essi trovano
un riscontro solo parziale in ricerche nazionali (12)
ed europee (13). Purtuttavia anche i dati europei che
presenteremo più avanti ci confermano la gravità del fenomeno,
la scarsità di informazioni al riguardo e la conseguente necessità
di indagarlo più approfonditamente.
(torna all'indice)
Sono fondamentalmente due le motivazioni che ci hanno spinto ad occuparci
di questa tematica nella quale si intrecciano così fortemente la
dimensione clinica e quella esistenziale.
Vi è innanzitutto una ragione di cura che ci deriva dalla nostra
professione di psichiatri e che ci porta ad occuparci della depressione
clinicamente manifesta che, come meglio vedremo, caratterizza così
ampiamente coloro che compiono atti autolesivi.
Riteniamo però che, soprattutto in questo campo, la dimensione
clinica non esaurisce quella esistenziale (14); occorre
dunque prudenza ed attenzione nel trattare professionalmente questi
soggetti e le loro famiglie così da mantenere il nostro intervento
nei limiti di competenza, riservando grande rispetto per la dolorosa vicenda
umana che ha portato una persona, bambino o adulto che sia, a "levar la
mano su di sé" (15). Detto in altri termini, non
crediamo sia possibile ridurre il tentato suicidio ed il suicidio a sintomi
di un disturbo psichiatrico; ben più complessa e per certi aspetti
indecifrabile è la vicenda umana di chi compie questo gesto; ad
essa la clinica può apportare conoscenza e sollievo a condizione
di tenere una posizione di umiltà e di rispetto.
La seconda ragione del nostro interesse per questo tema sta nel
fatto che, come tutte le condizioni estreme, anche il suicidio ed il tentato
suicidio mettono in evidenza aspetti della vita psichica che restano altrimenti
difficilmente esplorabili.
E’ il caso, qui, della individuazione di possibili fattori precipitanti
il comportamento suicidario e delle condizioni soggettive ed ambientali
che nel tempo vengono a configurare quella situazione di disperazione e
di impotenza che rappresenta il terreno predisponente per quel comportamento.
E’ evidente il valore di queste conoscenze al fine di definire efficaci
strategie di prevenzione. E’ in questa dimensione che assume valore ed
importanza conoscere i tempi ed i modi secondo i quali nel bambino e poi
nell’adolescente viene a definirsi l’idea di morte. L’intenzionalità
del gesto e del comportamento suicidario nel bambino è quasi sempre
negata da parte dell’adulto e spesso lo è anche nel caso dell’adolescente,
cosa che, tra l’altro, come abbiamo visto, contribuisce a mantenere praticamente
a zero la casistica ufficiale nel nostro Paese.
Il grado di consapevolezza che accompagna il comportamento suicidario
è condizionato da due ordini di fattori: l’intervento di meccanismi
di difesa, come ad esempio la negazione; la maturità cognitiva del
soggetto riguardo l’idea di morte, cosa che evidentemente ha particolare
rilievo in età evolutiva.
L’importanza di conoscere come si sviluppa nel bambino e nell’adolescente
l’idea di morte è dunque evidente, confermandosi in tal modo, anche
in questo caso, l’utilità di un approccio che mette su una linea
di continuità patologia e normalità.
L’intento di contribuire alla raccolta di informazioni significative
sul tentato suicidio e sul suicidio nei bambini e negli adolescenti ci
ha portato come primo passo ad esplorare approfonditamente la più
recente letteratura internazionale e nazionale.
Gli obiettivi di questa indagine sono diversi: innanzitutto la definizione
di un metodo epidemiologico efficace per evidenziare un fenomeno che diversamente
è sottostimato; quindi definire il percorso secondo il quale procedere
ad una indagine conoscitiva del singolo episodio, individuando strumenti
che consentano possibilità di confronto con altre ricerche
nazionali ed internazionali specie per i fattori di rischio; infine quello
di individuare una modalità di offerta per la presa in carico terapeutica
dei minori che abbiano tenuto condotte suicidarie nonché delle loro
famiglie; da ultimo riflettere su strategie efficaci di prevenzione.
Punto di partenza del nostro lavoro è stata dunque l’analisi della più recente letteratura. Ci siamo concentrati su quanto apparso nell’ultimo quinquennio. Naturalmente si è tenuto conto di alcuni interessanti articoli pubblicati sull’argomento anche in anni antecedenti il 1992. Abbiamo operato con ricerche sulla banca dati PSYCLIT (banca dati dell’Associazione degli psicologi americani); su Medline e sulle numerose riviste italiane non presenti nelle due banche dati. Rispetto a Psyclit gli articoli sono stati divisi per Paese e come si osserva dalla tabella 1 essi risultano per lo più prodotti negli Stati Uniti.
Tab1 Articoli pubblicati sul tentato suicidio in minori tra il 1992-97
Paese dove si è svolta la ricerca 1992-97 | lingua | numero di articoli |
Australia | englisch | 12 |
Canada | englisch | 12 |
England | englisch | 3 |
Finland | englisch | 1 |
France | englisch | 2 |
Germany | german | 2 |
Iceland | englisch | 1 |
Italy | englisch | 1 |
Israel | englisch | 7 |
Mexico | spanisch | 1 |
New Zealand | englisch | 2 |
Netherlands | englisch | 4 |
Northern Ireland | englisch | 2 |
Spain | englisch | 1 |
Sweden | englisch | 2 |
Switzerland | englisch | 2 |
USA | englisch | 150 |
La maggioranza degli studi dedicati al suicidio ed al tentato suicidio
per gli aspetti epidemiologici, sociali e psicologici rientra all'interno
di tre tipologie:
a) Indagini psicologiche post mortem, nelle quali
le circostanze del suicidio e la vita della vittima vengono ricostruiti
attraverso interviste con amici e famigliari (16).
b) Analisi di campioni di popolazione scolastica e non, effettuate
tramite self-report come nella estesa ricerca di Bjarnason et al.(17)
condotta su 7018 adolescenti Islandesi di 14-16 anni per individuare la
percentuale di soggetti a rischio per suicidio.
c) Studi longitudinali come nella ricerca di Fergusson et al. (18)
dove 1265 soggetti neozelandesi sono stati controllati periodicamente dalla
nascita fino ai 16 anni utilizzando self-report, interviste alle madri,
ai bambini, agli insegnanti, rapporti scolastici e di polizia.
Questi ultimi due tipi di ricerca hanno il pregio di dare indicazioni
su quanto il fenomeno sia diffuso, indagandolo su ampie fasce di popolazione,
essi però forniscono elementi solo molto generali sui fattori di
rischio; il primo tipo invece, pur con il limite rappresentato dal fatto
che le informazioni stesse hanno subìto una inevitabile elaborazione
(19), consente considerazioni di grande interesse sulle
caratteristiche psicologiche e specialmente sociali di chi è deceduto
per suicidio.
Vi sono alcune importanti ricerche che si allontanano dai modelli appena
descritti; esse inoltre risultano per noi particolarmente interessanti
per le domande che guidano il nostro studio: si tratta della ricerca epidemiologica
progettata dall’OMS (20-21); di quella condotta dal Servizio
di Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Padova e da quello
dell’Ospedale Civile di Udine (22) e di quella
descritta da Hawton e Fagg 23 svolta ad Oxford.
La ricerca dell’OMS che ha riguardato 12 paesi europei tra cui l’Italia,
era stata elaborata con i seguenti obiettivi:
- validazione di una metodologia di ricerca comune nelle diverse realtà
del continente per studiare il fenomeno del tentato suicidio nei suoi molteplici
aspetti;
- stabilire una definizione di tentato suicidio;
-fornire una stima attendibile dei tassi del tentato suicidio nelle
diverse popolazioni indagate;
- studiare per un anno un gruppo di persone che hanno tentato il suicidio
per descriverne più particolareggiatamente le caratteristiche ai
fini della definizione di strategie di prevenzione.
Prima di descrivere la ricerca ci sembra utile introdurre la definizione
di tentato suicidio fornita dell’OMS:
"Il tentato suicidio è inteso come un atto che non ha esito
fatale, nel quale l’individuo o deliberatamente compie un atto non abituale
che, senza l’intervento di altri, gli/le avrebbe causato un nocumento o
deliberatamente ingerisce una sostanza in eccesso rispetto al dosaggio
prescritto o a quello generalmente riconosciuto come terapeutico, la qual
cosa, secondo quanto desiderato dall’individuo stesso, dovrebbe procurare
delle gravi conseguenze alla sua salute" (20).
Il disegno di questa ricerca è così sintetizzabile: i
dati riguardanti persone di età superiore ai 15 anni sono stati
raccolti in 5 fasce di età a partire da 15-24 anni. Dopo aver raccolto
l’informazione sull’avvenuto tentato suicidio, il soggetto veniva contattato
dall’équipe psichiatrica e, se disponibile, gli veniva proposta
una lunga intervista chiamata EPSIS. Quest’ultima raccoglie numerose scale
di valutazione utili ad approfondire aspetti epidemiologici e psicometrici.
Contrariamente a quanto accaduto in altre nazioni, in Italia fu deciso
che l'informazione sull'avvenuto tentato suicidio sarebbe stata raccolta
presso il pronto soccorso piuttosto che dai medici di base, ciò
in quanto era stato verificato che, almeno nella realtà delle città
italiane coinvolte nella ricerca, la maggioranza quasi assoluta dei soggetti
che tenta il suicidio ricorre alla struttura ospedaliera piuttosto che
al medico di famiglia. Evidentemente con questa scelta si raccolgono informazioni
solo sui tentati suicidi che per la gravità sanitaria del gesto
ricorrono alle cure mediche; è facile comprendere come questo comporti
alcuni limiti riguardo la completezza della raccolta dei dati. Sappiamo
infatti dalle ricerche condotte negli Stati Uniti che la percentuale di
soggetti che ha tentato il suicidio in adolescenza è pari all’8%,
mentre i soggetti della stessa età che sono ricorsi ai sanitari,
è del 2%; monitorando soltanto i casi che si rivolgono ai presidi
sanitari vi sarebbe dunque una "perdita" di circa il 6% dei casi.
La ricerca dell’OMS prevedeva una seconda somministrazione di interviste
(EPSIS II) a distanza di un anno dalla prima; questa seconda fase è
però parzialmente fallita per la frequente indisponibilità
dei soggetti.
Merita ricordare come nella ricerca OMS non fosse previsto nessun intervento
terapeutico diretto sul soggetto.
Un’esperienza per certi versi simile, ma caratterizzata da forti finalità
terapeutiche, su minori di età compresa tra gli 11 e 14 anni è
quella coordinata da Condini e Marinig (22) condotta
a Padova ed Udine utilizzando un protocollo comune. Il lavoro, avviato
nel 1987, prevedeva una prima visita ai ragazzi in pronto soccorso,
e in tale sede veniva avviato un rapporto con i loro genitori. Seguiva
quindi un lavoro diagnostico e terapeutico con colloqui settimanali separati
con l’adolescente ed i suoi genitori.
Un’altra esperienza con finalità sia terapeutiche che di monitoraggio
del fenomeno è quella descritta da Hawton e Fagg (23);
essa è stata condotta ad Oxford dove era stato costituito, all’interno
dell’ospedale generale ed a stretto contatto con l’emergenza, uno staff
composto da psichiatra, infermiera, assistente sociale, specificamente
preparati che visitavano e valutavano tutti i casi di autoavvelenamento,
autolesionismo, e più in generale comportamenti pericolosi oltre
ovviamente, ai tentati suicidi dichiarati per pazienti compresi tra i 10
e i 19 anni (nota). Negli anni dal 1976 al
1989 sono stati esaminati ben 2282 casi di tentato suicidio.
La necessità di valutare direttamente ogni comportamento pericoloso
od ogni incidente che presentasse anche minimi dubbi sulla sua stessa natura
è conseguente, per gli autori citati, all'osservazione di come sia
frequente in età evolutiva che tentati suicidi siano interpretati
o presentati come incidenti.
nota: gli autori hanno sentito l'esigenza
di stabilire alcune definizioni:
Autoavvelenamento: assunzione volontaria ed intenzionale di qualsiasi
farmaco con un dosaggio superiore alla dose terapeutica indipendentemente
dall’evidenza che esista o meno la prova di un intenzionale autolesionismo.
In questa categoria vengono incluse anche le "droghe da sballo", le sostanze
non alimentari e gas, viene escluso chi è stato ricoverato per la
sola ingestione di alcool se non associato ad altre forme di autoavvelenamento
od autolesionismo.
Autolesionismo: qualsiasi atto deliberatamente inflitto con finalità
autolesiva riconosciuto come tale dallo staff.
Riteniamo che l’importanza delle ricerche epidemiologiche in questo
campo non risieda soltanto nella valutazione quantitativa della diffusione
del fenomeno, ma anche nella descrizione delle variabili sociali e demografiche
che possono costituire la premessa per la costruzione di mappe di rischio,
ovvero sia le caratteristiche rappresentative di quei giovani che hanno
manifestato idee suicidarie, oppure che hanno tentato di toglierersi la
vita oppure che vi sono riusciti. (24)
In realtà molte ricerche hanno evidenziato come sia difficile
individuare dei credibili fattori predittivi per il suicidio nei giovani.
I fattori generalmente presi in esame sono età e genere (25-27),
stato socioeconomico (28), fattori psichiatrici (29)
e psicologico-emozionali (30), incluso depressione (31-34),
ansia (35), perdita di speranza (hopelessnes) (36,37),
disturbi del comportamento come disubbidienza ed impulsività,
autolesionismo ed abuso di stupefacenti, ed interazioni tra queste variabili
(38-40). Altri aspetti studiati sono fattori cognitivi
lo come stile di pensiero e la rigidità dello stesso (41,42).
Molti studi sono stati dedicati alle variabili interpersonali: modelli
famigliari, crisi all’interno della coppia, rapporto con i coetanei, specie
nell’adolescenza, andamento scolastico (43), appartenenza
a minoranze etniche e condizioni estreme come il carcere (44)
e l’abuso fisico e sessuale (45). Merita sottolineare
come riguardo ai fattori di rischio, alcuni autori parlino di fattori predisponenti
e precipitanti (ad esempio: Crepet 24), altri invece,
come Orbach (48) preferiscano il termine di "circostanze
di vita" in ragione del fatto, come vedremo, che esso meglio corrisponde
alla dimensione evolutiva che caratterizza i soggetti di cui questo autore
si occupa.
Quello che normalmente sottende queste distinzioni, è il tentativo
di dare una risposta a domande come: è possibile che circostanze
esterne, pur considerando il peso dei fattori personali, possano giustificare
un tentato suicidio48? In che modo eventi esterni e caratteristiche personali
interagiscono fino al tentato suicidio (49) ? E’ pensabile
un tentato suicidio senza immaginare una sottostante e grave patologia
psichiatrica (50)?
Di seguito sono descritti fattori che con elevata frequenza sono associati a tentativi di suicidio partendo dalle caratteristiche psicopatologiche e di personalità di chi ha avuto comportamento suicidario.
Il fattore decisamente più importante è rappresentato
da precedenti tentativi di suicidio. Nella citata ricerca di Hawton e Fagg
(23) su 2282 soggetti ricoverati per tentato suicidio,
1 su 5 aveva alle spalle uno o più tentati suicidi (tab.
2). Più in generale, la maggioranza dei ricercatori sostiene
che il 40-60% dei giovani suicidi ha tentato almeno un’altra volta di uccidersi
e che circa l’1,5% dei giovani che tentano di suicidarsi vi riesce entro
12 mesi da quel primo tentativo, il 4,3% entro 10-15 anni.
Come già ricordato più sopra, la ricerca di Hawton e
Fagg23 raccoglie una interessantissima messe di informazioni che vanno
ben oltre quelle relative alla ripetitività dei tentati suicidi.
Per ragioni di brevità presentiamo attraverso tre tabelle i
dati conclusivi di questa ricerca (tab. 3, 4,
5).
Tab.2 Ripetitività dei Tentati Suicidi
Tentati suicidi precedenti
T.S. ripetuti entro un anno dal primo tentativo
n° | (%) | n° | (%) | |
femmine | ||||
10-14 | 24 | (11.8) | 19 | (8.4) |
15-19 | 263 | (21.9) | 119 | (9.1) |
10-19 | 287 | (20.5) | 138 | (9.0) |
maschi | ||||
10-14 | 5 | (16.2) | 1 | (2.6) |
15-19 | 81 | (18.9) | 49 | (9.0) |
10-19 | 86 | (18.7) | 50 | (8.6) |
entrambi | ||||
10-14 | 29 | (12.4) | 20 | (7.6) |
15-19 | 344 | (21.1) | 168 | (9.1) |
10-19 | 373 | (20.0) | 188 | (8.9) |
n° persone | episodi | n° persone | episodi | n° persone | episodi | |
10 | 2 | 2 | 0 | 0 | 2 | 2 |
11 | 4 | 4 | 2 | 2 | 6 | 6 |
12 | 21 | 22 | 3 | 3 | 24 | 25 |
13 | 61 | 64 | 11 | 11 | 72 | 75 |
14 | 158 | 174 | 26 | 27 | 184 | 201 |
10-14 | 246 | 266 | 42 | 43 | 288 | 309 |
15 | 232 | 254 | 47 | 52 | 279 | 306 |
16 | 271 | 351 | 75 | 90 | 346 | 441 |
17 | 299 | 375 | 119 | 141 | 418 | 515 |
18 | 304 | 383 | 147 | 173 | 451 | 556 |
19 | 310 | 386 | 190 | 227 | 500 | 613 |
15-19 | 1416 | 1749 | 578 | 683 | 1994 | 2432 |
10-19 | 1662 | 2015 | 620 | 726 | 2282 | 2741 |
FEMMINE MASCHI NUMERO TOTALE
modalità t.s. | numero | (%) | numero | (%) | numero | (%) |
taglio dei polsi | 200 | (88.9) | 114 | (78.1) | 314 | (84.6) |
taglio di altre parti del corpo | 18 | (8.0) | 17 | (11.6) | 35 | (9.4) |
salto dall'alto o davanti ad un veicolo in corsa | 6 | (2.7) | 5 | (3.4) | 11 | (3.0) |
armi da fuoco, impiccagione, annegamento. | 0 | (-) | 4 | (1.8) | 4 | (1.8) |
altri metodi | 1 | (0.4) | 6 | (2.7) | 7 | (1.9) |
numero totale degli episodi | 225 | (100) | 146 | (100) | 371 | (100) |
ETA': 10-14 anni 15-19 anni 10-19 anni
numero | (%) | numero | (%) | numero | (%) | |
femmine | ||||||
analgesici non oppiacei* | 169 | (65.3) | 984 | (61.9) | 1153 | (62.4) |
tranquillanti minori e sedativi | 29 | (11.2) | 230 | (14.5) | 259 | (14.0) |
antidepressivi | 19 | (7.3) | 125 | (7.9) | 144 | (7.8) |
altri farmaci | 75 | (29.0) | 401 | (25.1) | 476 | (25.7) |
numero totale episodi | 259 | 1590 | 1849 | |||
maschi | ||||||
analgesici non oppiacei* | 23 | (57.5) | 316 | (56.4) | 339 | (56.5) |
tranquillanti minori e sedativi | 8 | (20) | 96 | (17.1) | 104 | (17.3) |
antidepressivi | 5 | (12.5) | 42 | (7.5) | 47 | (7.8) |
altri farmaci | 12 | (30.0) | 150 | (26.8) | 162 | (27.0) |
numero totale episodi | 40 | 560 | 600 |
Le tabelle 2-5 sono tratte dal "British Journal of Psychiatry,
1992, 161, pag. 816-823
Hawton & Fagg. Deliberate Self-poisoning and Self-injury
in Adolescents.
A Study of Characteristics and Trends in Oxford, 1976-89"
(torna all'indice)
Ritornando alla questione dei fattori di rischio esiste un ampio e documentato
lavoro di Brent e collaboratori (51), che ha preso in
esame otto ricerche dedicate al rapporto fra tentato suicidio e disturbi
psichiatrici (tab. 6). Secondo questo studio,
esiste una generale consenso sul fatto che le vittime di suicidio adolescenti
soffrano di un disturbo psichiatrico. In questa revisione della letteratura
condotta da Brent su autopsie psicologiche era presente un disturbo
psichiatrico dell’Asse I (DM IV) nel 90 % dei casi. Il più rappresentato
tra questi era il disturbo depressivo, presente in una percentuale compresa
tra il 35% ed il 76%. Esso era comunemente associato ad abuso di sostanze
stupefacenti (tra il 35-66%). Altra frequente associazione era rappresentata
dal disturbo d’ansia. In almeno due studi veniva segnalata anche la presenza
di disturbo bipolare (52,53).
La schizofrenia risultava presente in un numero modesto di casi.
Sono stati descritti anche casi di suicidio in apparente assenza di
disturbi psichiatrici dell’asse I (fino al 19% dei casi secondo Apter
54).
La prevalenza di disturbi sull’Asse II (DSM-IV), disturbi di personalità,
era compresa tra il 10% (55) e 90 % (54).
Più frequentemente disturbi di personalità sono segnalati
in circa un terzo dei casi. I disturbi di personalità più
rappresentati erano: tipo istrionico, borderline, narcisistico ed antisociale
(56-58).
Elevata risultava anche la percentuale di comportamenti aggressivi,
violenti ed impulsivi (57).
E’ stata data anche attenzione al rapporto fra differenza di genere
sessuale disturbi psichiatrici e suicidio in età adolescenziale.
Marttunen et al. (60), avevano rilevato nei maschi suicidi
un disturbo d’adattamento nel 25% dei casi, mentre non vi era nessuna segnalazione
per il sesso femminile. In altri studi invece non si osservavano
differenze significative rispetto al disturbo d’adattamento (59).
Una caratteristica comune a tutti gli studi era che le ragazze suicide
apparivano maggiormente affette da disturbo depressivo e che avevano tentato
suicidio un numero più alto di volte . L’abuso d’alcool e di altre
droghe risultava più comune tra i maschi (60,61).
Elevata risultava anche la percentuale tra i maschi di comportamenti
aggressivi, violenti ed impulsivi (51).
Tabella nr. 6. Condizione psichiatrica di suicidi adolescenti (in %). Autopsia psicologica
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Al rapporto fra disturbo psichiatrico e tentato suicidio in adolescenza,
Philippe Jeammet (62) dedica una originale riflessione
che prende spunto dalla considerazione che le condizioni cliniche in cui
il suicidio può presentarsi sono varie e diverse tra loro, sia che
le si consideri dal punto di vista descrittivo che da quello psicanalitico.
Esse sono accomunate solo dall’evento tentato suicidio, ovvero da un passaggio
all’atto; a questo fenomeno psicologico l’autore assegna una assoluta centralità,
tanto da classificare il tentato suicidio nell’ambito delle "patologie
dell’agire"
Egli avanza in proposito anche una interessante ipotesi patogenetica:
l’agire sarebbe la modalità di risposta che certi soggetti darebbero
alla crisi dell’equilibrio narcisistico indotta dalla "eccitazione provocata
dalla relazione d’oggetto nel momento in cui essa si attualizza in un rapporto
concreto, attuale". Il passaggio all’atto verrebbe dunque a configurarsi
come "un mezzo di controllo sulla realtà esterna per controinvestire
una realtà interna che il soggetto non può controllare, con
il ricorso a modalità esclusivamente psichiche".
Un approccio dinamico al problema, fatto in termini di struttura ed
economia psichica, ha caratterizzato la ricerca che Jeammet ha condotto
su 250 casi di soggetti in età compresa tra i 15 e i 23 anni, suddivisi
secondo tre tipologie: un gruppo caratterizzato da esperienze di tentati
suicidi; uno da idee suicidarie senza passaggio all’atto ed il terzo di
controllo, costituito da soggetti in consultazione psichiatrica per ragioni
diverse dal tentato suicidio.
Proprio l’approccio descrittivo-categoriale, ha consentito di mostrare
come dal punto di vista del funzionamento psichico, contrariamente ad ogni
aspettativa, i soggetti con pensieri suicidari erano quelli che si discostavano
di più dal gruppo dei tentati suicidi.
Inoltre, si è trovato che la presenza di un sintomo comportamentale
funziona nell’economia generale di soggetti definiti "più fragili,
cioè personalità borderline o con organizzazione narcisistica"
come un freno a successivi tentativi di suicidio.
Questo confermerebbe, a nostro parere, che le strutture più
elastiche ed articolate -nel campo di strutture patologiche quelle
che si esprimono con più sintomi o con sintomi diversi nel tempo-
sono quelle meno a rischio di collasso o di comportamenti catastrofici.
Un aspetto della posizione di Jeammet sul tentato suicidio che merita
di essere ricordato per la sua peculiarità, risiede nel fatto che
questo è visto come un esempio di "attacco al corpo", al pari di
altre patologie come "l’anoressia, la bulimia, le automutilazioni".
Un altro autore che sicuramente merita di essere ricordato per l’ampiezza,
la credibilità degli studi, per lo spessore della proposta di inquadramento
etiopatogenetico è Israel Orbach.
Orbach è uno dei pochissimi autori che si è ampiamente
e lungamente occupato del tentato suicidio nell’età evolutiva e
particolarmente nei bambini più piccoli.
Con i suoi studi ci ha fornito rilevanti contributi per l’individuazione
dei fattori di rischio, cosa che diremo con maggiore ampiezza più
avanti, nonché ipotesi suggestive e ampiamente documentate sulle
dinamiche che portano alla "situazione suicidaria" e sui fattori che la
fanno precipitare.
Seguendo una impostazione dinamica di tipo fenomenologico, Orbach (48)
ipotizza come dimensione peculiare del suicidio nei bambini "la tesi del
problema irrisolvibile". La scelta per il suicidio sarebbe nel bambino
la conseguenza di una dimensione esistenziale caratterizzata dalla assenza
di soluzioni, da uno stato di impotenza che lo obbliga a ritenere infinite
le sue sofferenze. Questa percezione evoca facilmente depressione, disperazione,
sensazione di essere rifiutati e può condurre infine al suicidio.
Il "problema irrisolvibile" presenta alcune caratteristiche fondamentali:
a) è un problema che il bambino percepisce come aldilà
delle sue possibilità di soluzione e nasce all’interno di situazioni
famigliari altamente complesse. Il bambino diventa capro espiatorio
di conflitti, aggressività, ostilità tra i due genitori.
b) le scelte del bambino vengono costantemente contrastate: in questo
caso il problema diventa irrisolvibile per la rigidità genitoriale
che impone scelte indiscutibili bloccando qualsiasi alternativa proposta
dal bambino. Il bambino si sente intrappolato costretto in un vicolo cieco.
c) qualsiasi soluzione che il bambino tenta, genera nuovi problemi
così che ad una fonte di angoscia ne segue un’altra come una catena
senza fine.
In questa condizione il bambino, non più in grado di resistere
al disagio, incomincia a pensare alla morte come possibile alternativa.
Se pure questi bambini non differiscano dai coetanei per attrazione verso
la vita, incominciano a modificare, "in senso difensivo", la naturale repulsione
verso la morte che diventa lentamente una scelta possibile.
Per quanto esposto, seppure sinteticamente, appare evidente come la
proposta interpretativa centrale di Orbach (48) è
che il suicidio infantile sia correlato a determinate circostanze di vita
piuttosto che a caratteristiche specifiche di personalità.
Anche Leslie K. Jacobsen (63) in un lavoro dedicato
alla valutazione psichiatrica del bambino piccolo che ha tentato il suicidio,
sottolinea come nei bambini l’intento suicidario ed il tentato suicidio
siano positivamente correlati a perdita di speranza mentre non vi sarebbe
correlazione tra intento suicidario e letalità dell’atto: un bambino
può realmente credere di potersi sopprimere ingerendo due compresse
di aspirina.
Su una linea di approccio dinamico si pongono anche altri due
autori che si occupano del problema del tentato suicidio in età
evolutiva; essi arrivano per altro a considerazioni diverse e contrastanti
rispetto a quelle appena esposte, specie per il fatto che il disturbo psichiatrico
viene proposto come centrale nella genesi del tentato suicidio. Uno di
questi autori, Maria Kovacs (64), giunge a sostenere
che sia l’ideazione suicidaria che il tentato suicidio sono sempre
sintomi di disturbi psichiatrici diagnosticabili. Semmai il problema, per
la autrice, deve essere cercato nella difficoltà di formulare diagnosi
psichiatriche in età evolutiva specie perché i disturbi psichiatrici
a questa età hanno limiti ampi di fluttuazione con intervalli liberi
da sintomi. Qualora non si riescano ad individuare specifici sintomi depressivi
nel momento successivo al tentato suicidio, l’autrice sostiene che quei
sintomi dovevano essere presenti -magari come recrudescenza in fase silente
di una precedente sintomatologia depressiva- nel momento in cui fu tentato
il suicidio.
Per indagare quali tra i disturbi psichiatrici in età evolutiva
siano più frequentemente collegati al tentato suicidio, Kovacs (64)
ha svolto una ricerca su due gruppi di pazienti affetti da disturbi psichiatrici
e seguiti ambulatorialmente: un primo gruppo formato da 142 soggetti con
disturbo depressivo e di età compresa, all’inizio della ricerca,
tra 8 e 13 anni seguiti con un follow-up medio di 6,6 anni, ed un secondo
gruppo formato da 49 soggetti della stessa età del primo e seguiti
con follow-up medio di 8,9 anni. Nel secondo gruppo i disturbi psichiatrici
erano caratterizzati da: disturbo di adattamento, disturbi della condotta,
disturbi di apprendimento, deficit di attenzione, gravi conflitti intrafamigliari.
Le percentuali di ideazione suicidaria e tentato suicidio, sono state
registrate all’inizio dello studio, durante il follow-up ed alla fine.
Questo ha permesso di osservare all’interno dei due gruppi come si modificavano
le variabili studiate in funzione dell’età.
Nel gruppo dei pazienti depressi, la percentuale di ideazione suicidaria
all’inizio dello studio era del 58% e del 39% per i pazienti del secondo
gruppo; durante il follow-up era salita al 62% per il primo gruppo ed al
40% per il secondo; alla fine dello studio era del 74% per il primo gruppo
e 51% per il secondo.
Venendo a considerare più direttamente il tentato suicidio,
l’autrice rileva come questo gesto fosse stato registrato all’inizio dello
studio nel 9% dei soggetti del primo gruppo mentre non si era verificato
in nessuno dei soggetti del secondo gruppo; la media durante il follow-up
è stata del 18% per i soggetti depressi e dell’8% per i soggetti
del secondo gruppo. Alla fine dello studio le percentuali erano rispettivamente
del 24% e dell’8%.
Questi sono i dati che Kovaks (64) porta a sostegno
della diretta correlazione tra disturbo psichiatrico depressivo e tentato
suicidio in età evolutiva.
Dalle sue ricerche emergono anche altri dati che riteniamo interessante
segnalare.
Il rapporto tra ideazione suicidaria (che l’autrice definisce come
pensieri attuali, idee, ruminazioni o fantasie sul proprio suicidio o chiare
minacce verbali di compierlo) e tentato suicidio (secondo la definizione
dell’OMS già riportata) era risultato di 6:1 all’età media
considerata di 11 anni. Alla stessa età, non si osservavano differenze
di genere che compariranno, invece, a favore del sesso femminile, più
tardi intorno ai 14 anni. Il primo tentativo di suicidio in più
alta percentuale si era verificato tra i 13 ed i 14 anni.
Tra chi sostiene l’importanza del disturbo psichiatrico nella genesi
del tentato suicidio troviamo anche Cynthia R. Pfeffer (65,66)
che ha svolto una lunga ed articolata indagine su 106 pazienti di età
media di 10,8 ± 2,2 anni affetti da disturbo psichiatrico. Il 79%
di questi soggetti aveva fatto un tentativo di suicidio o presentato ideazione
suicidaria nei 6 mesi precedenti la ricerca. Essi sono stati messi a confronto
con un gruppo di controllo simile per caratteristiche sociali e di genere.
In entrambi i gruppi i fattori di rischio più significativi
risultarono il disturbo affettivo e più in generale i disturbi psichiatrici.
Ferma restando questa priorità, l’autrice sostiene come anche
gli scarsi rapporti sociali e la scarsa attività con i coetanei,
ovvero l’isolamento sociale (da qui l’indicazione dell’utilità di
interventi educativi a scopo preventivo), nonché relazioni problematiche
all’interno della famiglia o con i coetanei, rappresentassero nei gruppi
indagati fattori di rischio significativi.
In un secondo studio condotto dalla Pfeffer sempre su questo campione
di 106 bambini, sono stati indagati i meccanismi di difesa e più
in generale il funzionamento dell’Io (65).
Si è innanzitutto osservato che l’ideazione suicidaria ed il
tentato suicidio erano collegati ad impulsività, scarsa tolleranza
alle frustrazioni, incapacità di posticipare la reazione, inabilità
o scarsa attitudine a programmare l’azione, difficoltà di fronte
a scelte alternative, incapacità nella valutazione oggettiva di
situazioni esterne.
I meccanismi di difesa significativamente più utilizzati nel
gruppo formato dai soggetti che avevano presentato ideazione suicidaria
o avevano tentato il suicidio (79% del campione) sono risultati: proiezione,
regressione, compensazione e formazione reattiva.
(torna all'indice)
L’idea di morte nel bambino e nell’adolescente
La ripetuta affermazione del nesso esistente tra disturbo psichiatrico
e comportamento suicidario (67), porta a considerare
anche quale fattore rilevante l’idea che della morte hanno i bambini e
gli adolescenti.
La comprensione del "concetto di morte" -definito come cessazione di
tutte le funzioni vitali, condizione irreversibile, inevitabile ed universale-
è un processo lento e graduale. Molti autori si sono interrogati
su quando il bambino incominci a cogliere almeno gli aspetti fondamentali
del concetto e quando invece ne abbia una comprensione completa che, come
vedremo, sarà sovrapponibile a quella dell’adulto soltanto con l’adolescenza.
Diversamente da quanto suggerito da Piaget (68),
per il quale solo dopo i 3 anni si sviluppa un embrione del concetto di
morte, ci sono evidenze cliniche per poter sostenere come già a
due anni siano presenti curiosità e timori verso la morte (69).
Dai 4 ai 7 anni il concetto di morte diventa più realistico.
Anche se almeno fino ai 7 anni è assente l’idea di causalità
ed irreversibilità, la morte è percepita più facilmente
come una separazione, un disturbo temporaneo dell’esistenza e non come
qualcosa di definitivo. Per altro, studi fatti registrando la conduttanza
cutanea per misurare lo stato emotivo, hanno dimostrato come a questa età
l’idea di morte sia associata a forte emozione così come si verifica
anche tra i 13 ad i 16 anni e diversamente da quanto si osserva nell’età
intermedia ai due gruppi (8 - 13 anni).
Dai 7 ai 12 anni i bambini incominciano a percepire la morte come cessazione
definitiva di tutte le funzioni vitali, ma non sono ancora in grado di
attribuirle universalità e inevitabilità. Incominceranno
a farlo alla fine del periodo, intorno ai 12 anni, associandovi un intenso
interesse verso il soprannaturale (70,71).
Vi sono numerosi esempi clinici di come il bambino suicidario abbia
distorto, durante il percorso che lo ha portato al suicidio alcuni aspetti
dell’idea di morte. In particolare avrebbe rinforzato l’idea, presente
fisiologicamente in alcuni periodi dello sviluppo, che la morte possa essere
solo una separazione temporanea; egli inoltre si rappresenta la morte come
una condizione alternativa alla vita, una sorta di continuazione di questa
sotto altra forma. L’ulteriore importante particolarità che contraddistingue
l’idea di morte nel bambino suicidario è che le distorsioni di cui
si è appena detto, sono presenti solo in riferimento a se stesso,
alla propria vita; se indagati sulla morte relativa ad altre persone
o ad animali, questi bambini mostrano un’idea di morte adeguata all’età
e priva di distorsioni qualitative (48).
Queste alterazioni hanno evidentemente un significato difensivo in
quanto consentono di scegliere la morte per sfuggire ad una situazione
di sofferenza intollerabile e irrisolvibile, annullando il naturale terrore
per la morte così da rendere più facile il progetto di
suicidio e la sua esecuzione.
Il carattere difensivo di questa ideazione è confermato dal
fatto che se essa viene affrontata troppo direttamente in terapia, i bambini
suicidari mostrano un immediato considerevole aumento del livello di angoscia.
Le deformazioni descritte sono per altro reversibili come dimostrato
da ricerche svolte prima e dopo interventi terapeutici riusciti.
Per quel che riguarda gli adolescenti, Orbach (72),
riprendendo Yalom (73), ricorda che le strategie adolescenziali
per contrastare l’aumento della paura di morire consistono in una miscela
di negazione e di difese controfobiche (cinismo, provocazioni, umorismo,
giochi ad alto rischio). Oppure idealizzazione e mitizzazione come sono
le riflessioni filosofiche sul senso della vita e della morte, o l’idea
che la morte e l’atto di morire rappresentino un processo di unificazione
con entità soprannaturali (48).
Tyano (74) sottolinea che la vita intesa come consapevole
autonomia, acquista in adolescenza pieno significato solo con la
comparsa del "concetto di morte". Quest’ultimo giocherebbe così
un ruolo importante e strutturale nel processo maturativo che attraverso
l’adolescenza porta all’età adulta tanto da suggerire che esso possa
rappresentare un quarto organizzatore di seguito a quelli descritti da
Spitz (75).
Se gli adolescenti si occupano intensamente della morte, gli adolescenti
suicidi presentano alcune peculiarità. In uno studio con scala di
valutazione articolata su 5 domande indaganti altrettanti aspetti della
morte, si evidenziava che gli adolescenti che avevano compiuto un tentato
suicidio avevano meno paura di morire. Considerando come il timore della
morte abbia funzione inibitrice verso il suicidio, si deve prendere atto
di come il processo che porta al suicidio comporti anche un cambiamento
nei confronti dell’idea della morte con eliminazione degli aspetti inibitori
attraverso una visione distorta della morte stessa, in particolare
attraverso l’idea di potersi autorealizzare anche attraverso la morte,
superando in questo modo il timore di autoannientamento e la paura davanti
al mistero della morte, che caratterizzavano invece il gruppo di controllo
(72).
Tornando ora ad occuparci dei fattori di rischio trattiamo dei
numerosissimi studi dedicati alle famiglie di minori che hanno tentato
o sono riusciti a suicidarsi.
La famiglia riveste un ruolo importante nella genesi del suicidio
tanto maggiore quanto più giovane è il suicida.
Tre sono le caratteristiche famigliari particolarmente indagate.
a) la famiglia multiproblematica e disgregata (76-84)
(abuso di droghe/alcool, abuso sessuale/fisico, disoccupazione continuata,
seperazione/divorzi frequenti, psicopatologie di uno/due genitori,).
b) la famiglia che invia messaggi di morte: si fa riferimento in questo
caso al modello di famiglia descritto da Sabbath (85).
Attraverso una serie di comunicazioni qualche volta sottili, qualche volta
dirette, questi genitori esprimono il desiderio che il loro bambino sparisca
o che non fosse mai nato. Elemento dominante di questo modello -caratteristico
tra l’altro delle maternità e paternità indesiderate- sono
il rifiuto e l’espulsione (86).
c) processi distruttivi di simbiosi (48): in questo
ambito si collocano i contributi di Richmann (87-89)
e Pfeffer (90,91) che hanno teorizzato modelli di disfunzionamento
famigliari caratterizzati da relazioni interne rigide che non si adattano
ai cambiamenti dei membri.
Genitori e figli vivono in rapporto simbiotico, in bilico tra una eccessiva
vicinanza ed un eccessivo distacco. Scivolando da un estremo all’altro
minacciano continuamente l’identità di ogni membro della famiglia,
il quale può "esistere" soltanto attraverso l’appartenenza alla
famiglia stessa pur caratterizzata da un clima emotivo di ostilità,
e con una comunicazione tra i membri povera e reticente. Bambini che crescono
in queste famiglie si trovano in un dilemma irrisolvibile: se vogliono
instaurare rapporti con l’esterno, devono tradire la famiglia, ma se restano
fedeli devono rinunciare alla propria autonomia.
Sul ruolo della famiglia nella genesi del suicidio Miller et al. (92)
hanno trovato che gli adolescenti con tentato suicidio descrivevano
le loro famiglie tra le meno unite e più rigide, così come
Reinherz et al. (93) in studio della durata di
14 anni hanno evidenziato come soggetti con ideazione suicidaria e tentato
suicidio giudicavano le loro famiglie come più instabili e problematiche
rispetto al gruppo di controllo.
Circostanze di vita sfavorevoli
Perdita precoce di un genitore per morte.
Sulla base delle diverse ricerche da lui condotte su bambini che si
sono suicidati, Orbach (48) sottolinea l’importanza della
perdita precoce in seguito a morte di un genitore: tale dato risulta presente
fino al 45% tra coloro che si sono suicidati.
Risulta inoltre che questi soggetti sono stati esposti ad un’altra
separazione poco prima del gesto suicidario. Numerosi dati clinici suggeriscono
in effetti che il suicidio è correlato a perdite ripetute, sperimentate
in età precoce, spesso dovute a cause tragiche.
Naturalmente vi sono diversi problemi nel valutare l’importanza che
un così grave evento riveste nella genesi del suicidio: difficoltà
metodologiche che riguardano sia l’assenza di gruppi di controllo
che di scale di valutazioni standardizzate; impossibilità
di considerare il peso delle numerose variabili in campo come ad esempio
il tipo di abuso, la sua cronicità e gravità, oppure altri
fattori familiari (94).
La maggior parte degli studi effettuati evidenzia come i bambini con
esperienze di abuso siano più aggressivi, abbiano una riduzione
di autostima, dimostrino comportamento sessuale non adeguato all’età,
processi cognitivi disturbati e soffrano del disturbo post-traumatico da
stress (95-99). Per altro negli stessi studi si ricavano
pareri contrastanti sull’aumento della suicidalità come conseguenza
di abuso sessuale.
In un altro lavoro che ha messo a confronto un gruppo di donne che
avevano subito un rapporto incestuoso con il padre con un gruppo di donne
oggetto di violenza sessuale non incestuosa, si evidenziava che se nel
primo gruppo la percentuale di tentato suicidio era stato del 38%, nel
secondo essa si fermava al 5% (100). Sempre su questa
linea vi sono anche autori che sostengono come uno degli eventi che più
frequentemente influenza la condotta suicidaria delle ragazze tra i 14-16
anni di età sia proprio l'abuso sessuale (101-103).
Bayatpour et al.(104) hanno trovato in ragazze adolescenti
in gravidanza con una esperienza di abuso sessuale o fisico, un livello
di suicidalità maggiore rispetto a coetanee incinte ma non-abusate.
Altri studiosi hanno riscontrato in ragazzi sottoposti a trattamento di
disintossicazione e con storie di abuso sessuale alle spalle una maggiore
ideazione suicidaria ed un numero maggiore di tentativi di suicidio
che in ragazzi tossicodipendenti ma non-abusati sessualmente (105,106).
Studi più recenti sembrano invece mettere in dubbio la relazione
tra abuso e tentato suicidio sostenuta dagli autori precedenti.
Cohen et al.(107) studiando un campione di 105 adolescenti
pazienti psichiatrici e suddividendoli in 4 gruppi in relazione alla presenza
nel loro passato di abuso sessuale, abuso fisico, oppure di entrambi, oppure
di nessun abuso, ha concluso che sia la sintomatologia psichiatrica che
il comportamento suicidale erano indipendenti dalla esperienza di
abuso.
Brand et. al. (108) hanno indagato la suicidalità
di 24 ragazzi/e recoverati/e in psichiatria per depressione con esperienze
di abuso sessuale confrontandoli/e con un gruppo di controllo composto
da altri 24 pazienti con depressione. Gli/le adolescenti depressi abusati/e
mostravano una prevalenza maggiore di comorbidità per il disturbo
post traumatico da stress rispetto al gruppo di controllo, ma non si differenziavano
per quanto riguardava grado di depressione, sintomi depressivi specifici,
od aumento del comportamento suicidale.
I pochi studi dedicati al rischio di suicidio in minori detenuti, segnalano
l’elevata probabilità di comportamento suicidale specialmente quando
i detenuti fanno parte di minoranze etniche o sono immigrati da altri paesi
(44). Vale la pena di richiamare la ricerca di
Lawlor et al.(109)dove si sottolinea come 1 detenuto
ogni 100, in età compresa tra i 12 e i 17 anni, che permanga in
carcere più di una settimana, compia un grave tentativo di suicidio.
Nella pur ampia letteratura da noi consultata, non abbiamo riscontrato
altri dati al riguardo; la cosa va certamente approfondita, ma ci è
sembrato comunque importante segnalare questo dato.
La detenzione, in tutti i casi, aggraverebbe altre condizioni di rischio
rappresentate specialmente da depressione ed abuso di alcool.
Minoranze etniche e tentato suicidio
Certamente la relazione tra questi due fattori non riguarda le
minoranze etniche in sé, ma i fattori di svantaggio culturale o
economico e di stress che caratterizzano le minoranze etniche (110-118).
Differenti studi sono stati condotti su diverse minoranze in diverse aree.
Uno di questi studi ha riguardato la minoranza etnica indiana rappresentata
nello stato di Alberta dai Nativi Canadesi (110); altri
sono stati svolti a Miami confrontando adolescenti appartenenti a gruppi
etnici diversi come Afro-Americani, Ispanici e Bianchi non Ispanici, Latino
Americani (111); in questi come in altri studi è
stata considerata tra i fattori di rischio la sindrome da disadattamento
sociale ("acculturative stress") (112).
Per i Nativi Canadesi la più alta percentuale di tentati suicidi
ed ideazione suicidaria rispetto ad altri coetanei canadesi sarebbe da
collegarsi in definitiva all’accumularsi di fattori di rischio che diventano
più rilevanti con l’età e sono rappresentati da abuso di
droghe -specialmente alcool- elevata incidenza di depressione, elevata
percentuale di separazioni famigliari. L’aumento di tentati suicidi si
manifesta in modo drammatico a partire dai 14-15 anni. (nota)
Gli autori di questo studio sottolineano come fattore determinante
dell’alto tasso di tentato suicidio il grave svantaggio socioeconomico
che i Nativi vivono nella riserva dove la ricerca è stata svolta.
La ricerca svolta a Miami su campioni di popolazione multietnica (Haitiani,
Cubani, Nicaguarensi, Afro-Americani, Bianchi non Ispanici, Ispanici, Neri
Caraibici) ha studiato la relazione fra l’appartenenza ad uno specifico
gruppo etnico, e l’uso di droghe, da un lato e tentato suicidio e
ideazione suicidaria dall’altro. Questa ricerca ha registrato l’esistenza
di significative correlazioni fra i fattori considerati, segnalando la
massima incidenza di tentati suicidi negli Haitiani e la minima nei Neri
Caraibici. Ciò che ha portato al primo posto il gruppo degli Haitiani
è risultato essere la maggiore prevalenza in questo gruppo del fattore
"droga" e di quello "recente immigrazione". Le droghe più legate
al rischio risultarono PCP, cocaina, crack, anfetamina/tranquillanti.
In uno studio successivo sullo stesso campione è stata valutata
l’incidenza del disturbo post-traumatico da stress (per evento naturale
uragano Hurricane), che come sappiamo ha significative implicazioni nella
genesi dei comportamenti
Nota: Per i Nativi Canadesi l’ideazione suicidaria
va dal 27% a 13-14 anni fino al 51% a partire dai 15 anni. La percentuale
di tentato suicidio è del 7% a 12-13 anni, arriva al 16% a 14 anni
e al 25% dai 15 anni in poi.
suicidali. Risultò che il gruppo più a rischio era costituito
da ragazze che presentavano aspetti depressivi già prima dell’evento,
di basso livello socio-economico e con elevata conflittualità famigliare.
Non furono riscontrate implicazioni né per la razza né per
l’etnia.
Nello studio di Hovey e collaboratori (112) è
stato valutato lo stress legato all’adattamento ("acculturative stress")
a modelli culturali diversi su soggetti Latino Americani di prima e seconda
generazione nella California del sud in relazione all’incidenza della depressione
e dell’ideazione suicidaria.
Gli autori hanno trovato elevate percentuali di depressione (23% dei
soggetti) ed ideazione suicidaria correlabili con la fatica di adattamento
ad un modello culturale diverso. Ciò risulterebbe confermato da
studi svolti all’interno di comunità multietniche e quindi non a
modello unico (tolleranti per definizione), nelle quali non si hanno gli
stessi risultati essendo assente il fattore di rischio descritto (acculturative
stress).
Dalla letteratura da noi consultata risulta che il Center for Desease
Control and Prevention di Atlanta (119) sia l’unico
centro che in maniera sistematica ed organizzata si è occupato di
strategie di prevenzione anche a proposito del suicidio nei minori. Questo
Centro dal 1992 viene proponendo indicazioni e suggerimenti che compongono
linee di prevenzione articolate in diversi livelli.
La prevenzione primaria si concentra su indicazioni di carattere generale
relative ai disturbi (115-118) che più
spesso si associano al tentato suicidio. Attraverso appositi training,
si invita a contrastare sia la tendenza alla solitudine che altri primi
segni di depressione lavorando al rinforzo delle abilità personali,
interpersonali e sociali (120-124). Si invita inoltre
a favorire il dialogo interiore per contrastare l’impulsività ed
i comportamenti violenti. Questi obiettivi coinvolgono evidentemente anche
la comunità: a scuola si raccomanda di lavorare per limitare o evitare
l’abbandono precoce, ai servizi sanitari di considerare con attenzione
la ricaduta negativa che un disturbo psichiatrico parentale può
avere in famiglia (125). Si suggerisce anche di favorire
il contatto con modelli adulti positivi all’interno della comunità.
Sempre nell’ambito della prevenzione primaria sono fornite alcune
linee guida relative a come i media dovrebbero trattare il suicidio nel
darne la notizia per evitare l’effetto imitativo (126-128).
In particolare si consiglia di non romanticizzare il caso di suicidio;
evitare di pubblicare notizie riguardanti suicidi in prima pagina;
evitare di pubblicare una fotografia della vittima; evitare i dettagli
sulla modalità.
Fa parte della prevenzione primaria anche il suggerimento di rendere
più difficile l’atto suicidario evitando di lasciare armi
da fuoco e farmaci facilmente accessibili.
La prevenzione secondaria riguarda l’individuazione ed il monitoraggio
dei gruppi ad alto rischio, l’attivazione di gruppi di auto aiuto, la presa
in carico e la psicoterapia per i soggetti affetti da disturbo psichiatrico
(129) e le loro famiglie(130-132).
A livello di comunità si suggerisce di educare i giovani e chi
è a contatto con loro a cogliere i primi segni di disagio e di provare
ad affrontarli offrendo aiuto.
Nell’ambito della prevenzione secondaria rientrano l’attivazione di
punti di ascolto telefonico per i giovani tenuti da coetanei e la formazione
degli specialisti che si occupano di salute mentale fornendo loro anche
adeguate informazioni sul suicidio.
La prevenzione terziaria si occupa dei "fattori di rischio (per esempio
depressione 133, abuso di sostanze e disturbi psichiatrici
associati 134) nonché delle popolazioni (adolescenti
psichiatricamente disturbati (135) che rappresentano
il nucleo dei suicidi riusciti" (136).
Prevenzione all’interno della scuola
Molti programmi di prevenzione del suicidio sono stati formulati appositamente
per la scuola, con la consapevolezza che la grande maggioranza dei tentati
suicidi nell’età giovanile interessa gli studenti, più frequentemente
quelli di scuola media superiore.
In questo senso il ruolo della scuola è rilevante nella prevenzione.
Questi programmi si articolano su due aspetti fondamentali. Il primo
riguarda la prevenzione primaria che, come meglio vedremo, è sostanzialmente
indirizzata alla riduzione del disagio scolastico; il secondo aspetto è
indirizzato verso il riconoscimento delle situazioni a rischio immediato
sapendone cogliere i segnali d’allarme, che generalmente consistono in
minacce verbali di suicidio, cambiamenti di comportamento o di personalità
con tendenza all’isolamento, peggioramento del rendimento scolastico, comparsa
di aspetti depressivi e fornendo al contempo un primo concreto aiuto tramite
la disponibilità all’ascolto partecipato e non giudicante.
Quanto descritto è rivolto sia ai coetanei che a tutto il personale
delle scuole.
Non sempre questi programmi che hanno coinvolto intere scuole si sono
dimostrati efficaci.
Essi sono stati messi in discussione più volte per almeno due
motivi fondamentali. Il primo è collegato al fatto che il programma
stesso enfatizzando il suicidio possa contribuire ad aumentarne la diffusione;
il secondo è collegato all’assenza di prove decisive sull’efficacia
in senso preventivo di simili programmi già effettuati in passato.
Alla prima osservazione è stato risposto che il problema è
relativo a come si parla del suicidio e rispetto a questo si ricorda che
vi sono precise indicazioni circa l’evitare il sensazionalismo, non romanticizzare
l’episodio, privilegiare l’approfondimento del fenomeno piuttosto che personalizzare
l’evento, favorire la discussione tra pari in gruppi non troppo grandi,
ecc.
Per controbattere la seconda critica vengono citate recenti pubblicazioni
che portano prove a favore di questi programmi preventivi che sarebbero
in grado, se ben articolati, di ridurre l’incidenza di comportamenti suicidari
attraverso interventi mirati appunto a prevenire depressione, perdita
di speranza, stress e comportamenti aggressivi.
All’interno della scuola, sembrano risultare efficaci anche gli interventi
mirati alle capacità di attivazione e sensibilizzazione di coetanei
poiché essi sono spesso i primi a cogliere confidenze su propositi
suicidi o ad osservare cadute depressive nei compagni. (137)
Altro aspetto importante riguarda il cosiddetto "post-intervento"
(138).
Esso viene attivato dopo il suicidio di uno studente e riguarda i compagni
di classe e di scuola e gli insegnanti del suicida. E’ mirato al superamento
dei sensi di colpa che inevitabilmente si determinano cercando di consentire
l’elaborazione del lutto in un contesto favorente (139-143).
Questo intervento serve a limitare il rischio di "suicidio imitativo" che
sull’onda della grande emozione che il suicidio di un coetaneo determina
è molto alto.
Riassumendo: i programmi di prevenzione al suicidio all’interno della
scuola si articolano, come abbiamo già visto accadere per
i programmi di prevenzione, in primari, secondari, terziari
e post-intervento.
Nel caso della prevenzione primaria si lavora per favorire nei giovani
una maggior fiducia nei propri mezzi e capacità poiché si
considera il rafforzamento dell’autostima importante elemento specifico
nella prevenzione del suicidio (144).
La prevenzione secondaria è indirizzata alla formazione del
personale della scuola e degli studenti in modo da consentire loro un precoce
riconoscimento di segni premonitori di condotte suicidarie.
I programmi di prevenzione terziaria sono orientati a rompere il silenzio,
che talora diventa una vera e propria omertà, che grava su questi
episodi, dato che moltissimi tentativi di suicidio non giungono a conoscenza
né dei genitori né dei sanitari, mentre difficilmente sfuggono
ai compagni di scuola.
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Gli studi di follow-up hanno evidenziato come esista una elevata probabilità
che il tentato suicidio sia ripetuto in futuro; viene segnalata in proposito
una percentuale compresa fra il 10 e il 50%145 . Ancora più drammatica
è la segnalazione che tra coloro che hanno alle spalle un
primo tentato suicidio, più dell’11% morirà per suicidio
(146). Va per altro ricordato che il 66% dei suicidi
non aveva mai presentato in precedenza un tentativo di suicidio (24),
cosa che sottolinea la prioritaria importanza degli interventi di prevenzione
primaria più sopra ricordati.
Nonostante appaia ovvia la necessità di intervento
terapeutico, dati attendibili di provenienza americana segnalano che il
50% dei soggetti che hanno tentato il suicidio non sarà seguito,
mentre di coloro inizialmente presi in carico, il 77% interromperà
precocemente la terapia (147). I fattori che influenzano
l’adolescente e la sua famiglia nell’adesione o meno ad un progetto terapeutico
dipendono per Rotheram-Borus (148,149), anche dalle
caratteristiche del primo incontro in sala di emergenza. Quando l’adolescente
è stato appena ricoverato al pronto soccorso per un tentato suicidio,
gli elementi che a parere dell’autrice interferiscono con la realizzazione
di una buona presa in carico riguardano sia l’adolescente e la sua famiglia
che lo staff medico.
Per quanto riguarda i primi sono indicati: il senso di colpa collegato
alla percezione di sé come cattivo figlio o cattivi genitori, la
difficoltà a comprendere l’atto da parte di questi ultimi, e le
incertezze sulle conseguenze sia immediate che future.
Per quel che riguarda lo staff sanitario viene sottolineata l’interferenza
derivante dal concentrarsi esclusivamente sulle conseguenze mediche e la
scarsa attitudine a dedicare tempo, attenzione e disponibilità emotiva
alle persone coinvolte.
Come rimedio a questi aspetti negativi viene proposto l’intervento
di specialisti, "terapista di crisi" nella terminologia americana, che
siano continuamente reperibili e con funzioni di mediazione tra lo staff
medico, la famiglia e l’adolescente così da avviare infine
la presa in carico terapeutica del caso. Nell’ospedale dove l’autrice ha
svolto la sua ricerca, anche lo staff medico riceve una specifica preparazione
che diviene poi permanente grazie alla stabile collaborazione con gli specialisti.
Si è visto come questo approccio faccia aumentare fino al 90% l’adesione
alla terapia proposta successivamente all’atto suicidario. Il trattamento,
che nel caso della Rotheram-Borus è di tipo cognitivista, viene
svolto più frequentemente a livello ambulatoriale visto che nella
grande maggioranza dei casi le prime valutazioni escludono la necessità
di ricovero psichiatrico (150-152).
Anche l’esperienza di Condini e Marinig (22), conferma
l’importanza dello stretto collegamento fra neuropsichiatri infantili e
medici del Pronto Soccorso anche al fine di conquistare una alta percentuale
di adesioni al programma di trattamento psicoterapico.
Indipendentemente dal tipo di terapia, le modalità del trattamento
risentiranno evidentemente dell’età e delle caratteristiche del
soggetto e della sua famiglia.
Per i bambini più piccoli, per la prima fase di valutazione,
risulta interessante il lavoro di Jacobsen et al. (63)
dove viene riportato un esempio di intervista per bambini prepuberi e vengono
suggerite alcune attenzioni per il clinico.
Questi autori ricordano innanzitutto che la discrepanza tra intento
suicidario e letalità medica è la regola nel caso di bambini
piccoli; questa differenza non deve quindi mettere in dubbio il potenziale
desiderio di letalità.
Essi consigliano poi di assicurarsi che al termine dell’intervista
il bambino non venga lasciato in uno stato di tensione ed angoscia troppo
elevato.
Nella valutazione della gravità del caso si sottolinea
la necessità di tener conto di quanto emerge dalla comunicazione
verbale ma, in ragione delle limitate capacità verbali dei bambini
piccoli, si consiglia di prestare la massima attenzione ai cambiamenti
emotivi che compaiono in associazione al ricordo del tentato suicidio,
così come a quanto viene trasmesso durante il gioco.
Tutti gli autori rimarcano che attualmente mancano dati relativi alla
efficacia dei trattamenti condotti e come, per conseguenza, questo sia
un punto su cui focalizzare le future ricerche.
Non ci sono dubbi sull’elevata incidenza del tentato suicidio nell’età
evolutiva così come sulla sua tendenza ad aumentare. Ci sembra confermata
quindi la necessità di indagare approfonditamente il fenomeno.
Lo studio epidemiologico presenta numerose difficoltà di ordine
metodologico e pratico. I risultati degli studi condotti sul tentato suicidio
a livello mondiale evidenziano la necessità di standardizzare il
metodo di raccolta per ottenere dati attendibili e confrontabili. Inoltre,
per dare significatività ai risultati, i dati dovrebbero pervenire
da aree geograficamente estese: si richiedono quindi studi multicentrici.
Per aver dati attendibili ed un contatto tempestivo con chi ha tentato
il suicidio, è necessario collegarsi ai centri di emergenza ospedalieri
che risultano essere le prime strutture d’accoglienza, almeno per la realtà
italiana. E’ necessario per conseguenza, stabilire protocolli d’intesa,
che oggi mancano, fra neuropsichiatri infantili e medici del Pronto Soccorso.
E’ comunque importante la sensibilizzazione dei colleghi dell’emergenza
perché ci segnalino ogni comportamento pericoloso e non solo i tentati
suicidi dichiarati. Questo vale specialmente per i minori sotto i 15 anni
dove, come abbiamo visto, più facilmente un tentato suicidio è
presentato o scambiato come incidente.
Ciò è tanto più importante quando si considera
che uno dei più efficaci interventi di prevenzione per il
suicidio che possiamo realizzare, è prendersi cura di chi
ha fatto un primo tentativo.
Ringraziamenti:
Ringraziamo la signora Karin Hofmann per le traduzioni Tedesco-Italiano
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