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Considerazioni eziopatogenetiche e cliniche su un caso di ripetuto tentato suicidio di una adolescente 

An  investigation of  a female adolescent with esperience of repeated siucidal attempts. Clinical and psiycopathological factors.
Rigon Giancarlo*, Poggioli Daniele G.**, Mancaruso Alessandra***
*Primario di Neuropsichiatria Infantile Az. USL città di Bologna
**Aiuto di Neuropsichiatria Infantile Az. USL città di Bologna
***Psicologa frequentatrice presso Az. USL città di Bologna


Indice:summary, introduzione, tabella riassuntiva letteratura, caso clinico, commento al caso clinico, tabella frequenza t.s. nella ricerca OMS, tabella frequenza t.s. rilevato con self-report, riassunto, bibliografia.


SUMMARY - In this article the case of a female adolescent with esperience of repeated suicidal attempts is presented; her history is discussed on the light of the data of recent researches about the correlation among suicidality, personal and familiar history and the attitudes  toward life and death. Furthermore we indicate that suicide attempts during the teenage years are frequently and the great majority are not medically serious for that only a little part of adolescent suicide attempters are taken for medical care and go to hospitals. Self-report questionnaire is particularly important to assess the epidemilogy and psychosocial characteristics of adolescent parasuicide (medically serious or not) and for evaluation suicide prevention programs.
Key words: suicide; adolescence; suicide attempts; suicide prevention; treatment; self-report
Parole chiave: suicidio; adolescenza; tentativo di suicidio; prevenzione; trattamento; self- report

Introduzione
In tutti i paesi occidentali si è registrato negli ultimi anni, un notevole aumento del tentato suicidio in età evolutiva ed in particolare in adolescenza, tanto che esso è diventato un problema di salute mentale di primaria importanza. Questo fenomeno si è registrato anche in Italia tanto che molto recentemente il Comitato italiano di Bioetica ha sottolineato questa situazione richiamando l’urgenza di interventi a carattere preventivo (1).
A questo tema abbiamo dedicato lo scorso anno una rassegna critica della letteratura segnalando quanto esso fosse di attualità (2). Abbiamo trovato conferma di ciò in occasione della stesura del caso clinico che presentiamo in questo lavoro: impostando su MEDLINE una ricerca su suicidio ed adolescenza risultano pubblicati più di 250 articoli nell’arco degli ultimi 12 mesi. (Tabella 1)

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cso maria tab1
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 In questa Tabella sono riportati e divisi per argomenti principali questi articoli. Per la verità, impostando la ricerca su 12 mesi e con parola chiave suicidio ed adolescenza gli articoli segnalati sono 349. Di questi però alcuni solo marginalmente riguardano l’argomento che trattiamo ed altri escono dal limite cronologico dei 12 mesi e per queste ragioni non sono stati considerati.
Ogni articolo riportato in tabella è stato segnalato un unica volta per l’argomento principalmente trattato. Quando, come per alcuni articoli dedicati ai “fattori di rischio”, non era possibile individuare un unico aspetto, l’articolo è stato inserito nella voce ”aspetti generali”.


Sono stati individuati tre principali raggruppamenti: epidemiologia, prevenzione, terapia. Ognuno di questi è fortemente connesso agli altri e infatti quasi tutti gli articoli in qualche modo trattano aspetti attinenti alle tre aree. Per questa ragione se ad esempio la ricerca viene fatta per parole chiave il numero di articoli che trattano la terapia risulta di 123 e non di 24 come da noi riportato.
Allo stesso modo se incrociamo “abuso di alcol e suicidio in adolescenza” otteniamo ben 45 articoli mentre i lavori più specificamente dedicati sono soltanto 7.
La gran parte dei lavori citati si potrebbe accorpare inoltre completamente sotto la voce “strumenti utilizzati nelle ricerche”; colpisce in proposito che quasi tutti gli articoli siano stati sviluppati utilizzando questionari ad autosomministrazione o ad eterosomministrazione. Tra queste ricerche risulta di particolare interesse per le dimensioni e per il metodo utilizzato quella svolta dal Center for Disease Contol and Prevention di Atalanta intitolata “Osservatorio dei comportamenti giovanili a rischio USA, 1997” (3). Utilizzando, tra il febbraio ed il maggio 1997, un questionario anonimo composto da 85 domande a scelta multipla sono stati indagati ben 16.262 soggetti in 151 scuole. Il grado di scolarizzazione era compreso tra i 9 ed i 12 anni, l’età oscillava quindi tra i 12-13 anni ed i 18-19 anni circa.
La ricerca era tesa ad evidenziare i comportamenti a rischio con spettro ampio e domande che oscillavano dall’uso del casco in motocicletta all’uso di droghe. Sono stati anche indagati l’ideazione suicidaria, che si è riscontrata presente nel 20,5% dei casi, la presenza di un piano dettagliato per suicidarsi (media 15.7%), l’aver compiuto uno o più tentativi di suicidio nei precedenti 12 mesi (media 7.7%); dalla ricerca risulta inoltre che il 2.6% degli studenti intervistati nei precedenti 12 mesi erano ricorsi a cure mediche o infermieristiche per lesioni, avvelenamento, overdose a seguito di un tentativo di suicidio.


Ritornando alla nostra Tabella 1, si osserva come anche nello scorso anno una elevata percentuale di lavori sia stata dedicata al rapporto tra malattia psichiatrica, in particolare la depressione, e suicidio. Una altrettanto considerevole parte di lavori è stata dedicata alle variabili psicosociali (38 articoli), agli eventi di vita sfavorevoli, alle famiglie multiproblematiche. Il vasto numero di argomenti trattati ed i diversi punti di vista in merito, ci confermano come ci si trovi di fronte ad un argomento complesso con un ampio spettro di manifestazioni associate che non consentono una lettura semplificata né per gli aspetti etiopatogenetici né per quelli clinici (in particolare per quel che riguarda gli interventi terapeutici) né, in larga misura, per i programmi di prevenzione.
Come contributo personale allo studio del tentato suicidio presentiamo un caso clinico che si è dimostrato particolarmente ricco di spunti di riflessione; esso ci consentirà anche di aggiornare l’informazione riguardo alla letteratura.
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CASO CLINICO: tentativi di suicidio, storia famigliare, cambiamenti dopo il t.s.

Tentativi di suicidio

Maria è una ragazza di 15 anni giunta all’osservazione di uno di noi mentre era ricoverata in rianimazione dopo aver compiuto un grave atto autolesivo.
Prima di compiere il suo ultimo tentativo di suicidio, aveva provato “a togliersi di mezzo” - come lei stessa dice -, altre due volte, la prima ingerendo un certo quantitativo di benzodiazepine e la seconda procurandosi una lesione al polso sinistro.
Tutti i tentativi di suicidio erano stati preparati con attenzione ai dettagli ed estrema riservatezza, in modo da non lasciare tracce immediatamente interpretabili. Nel primo caso i familiari sono venuti a conoscenza del fatto perché chiamati dal preside della scuola: Maria quel mattino era estremamente sonnolenta e con lievi problemi di equilibrio; solo dopo qualche insistenza, una volta a casa, ha ammesso di aver assunto un quantitativo consistente di benzodiazepine con dichiarato intento suicidario.
La volta successiva è stato direttamente un familiare a notare la lieve ferita al polso sinistro della ragazza.
  In nessuno dei due casi Maria ha avuto contatto con il sistema sanitario; i familiari che pur si erano resi conto degli atti compiuti da Maria li avevano sottovalutati, spiegandoseli come una “cosa da ragazzi”. Maria stessa li aveva  aiutati in questa negazione rassicurandoli col dire che si era trattato di un momento passeggero di sconforto, ormai superato. Inoltre, sarebbe stato difficile per tutti attribuire a Maria una reale intenzione suicidaria considerato che era una delle tante adolescenti con buoni risultati scolastici e soddisfacenti relazioni con i coetanei.
Il terzo e più grave tentativo è seguito ad una pesante discussione familiare che si è prolungata per circa una settimana e si è conclusa con il divieto di passare la notte a casa di amici in occasione di una festa di compleanno. La sera in cui avrebbe dovuto essere con gli amici, dopo un’accurata valutazione dei farmaci presenti in casa, Maria ha ingerito un’intera confezione di antidepressivi triciclici ed un blister di benzodiazepine. Con grande cura ha nascosto le scatole vuote ed ha raggiunto la nonna in salotto per guardare la TV. Ma non si è addormenta passando dal sonno alla morte, come sperava: il vomito ed una prolungata crisi epilettica hanno messo in allarme i famigliari ed hanno permesso che Maria raggiungesse, pur in stato di coma, le cure necessarie presso il pronto soccorso e poi il reparto di rianimazione.
Soltanto ore dopo si riuscirà a capire la ragione del coma ed a ricostruire la dinamica degli eventi che erano culminati nel gesto suicidario.

Ad una valutazione più approfondita ci accorgiamo che la storia famigliare di Maria presenta caratteristiche significative perché simili a quelle descritte per altri adolescenti che hanno realizzato il suicidio.

Storia famigliare di Maria

I genitori di Maria erano una coppia coniugale già in crisi poco tempo dopo il matrimonio; la madre pensava di separarsi, mentre il padre era fortemente contrario a questa idea ed aveva intravisto nell’avere un figlio una possibilità di restare unito alla moglie.
Quando scoprì di essere incinta, la madre di Maria pensò di abortire, decisione rientrata per la netta opposizione del marito.
La nascita di Maria non risolse i problemi dei genitori, anzi, sembrò acuirli tanto che decisero infine di separarsi quando la bambina aveva tre anni.

Il non essere mai stata desiderata, se non dal padre in modo strumentale stando a quanto lui stesso dice, si trasformò dopo la separazione nel rimprovero che le veniva fatto dalla madre di essere la causa della sua mancata realizzazione, della impossibilità “di rifarsi una vita”.
“Tuo padre sì che se la spassa, mentre io sono legata qui perché ci sei tu”, questo anche a detta della nonna paterna, era il rimprovero che di frequente la madre lanciava contro Maria.

I genitori, nella loro ambivalenza, non riuscirono in realtà a separarsi completamente: la vicinanza delle case in cui abitavano li portava a continui incontri che però non avevano mai il valore di un rapporto affettivo.
Questa situazione perdurò sino al momento della morte della madre accaduta quando Maria aveva otto anni, a causa di un incidente stradale che per qualche aspetto risultò inspiegabile; i giornali di allora riportarono che la signora aveva attraversato “distrattamente” una strada di grande traffico.
A seguito della morte della mamma, Maria andò a vivere con i nonni paterni visto che il padre, per asseriti motivi di lavoro, non poteva garantire una presenza stabile in casa.

In realtà il padre di Maria è, per sua stessa ammissione, un uomo che non è mai stato capace di occuparsi realmente della crescita della figlia neppure quando la moglie era ancora viva; alla morte di questa, lasciò che fossero i propri genitori ad occuparsi completamente della bambina. La figlia gli rimprovererà più volte questa sua assenza:” Quando ho avuto bisogno di te, fosse solo per andare a mangiare una pizza, tu non c’eri mai”; alla terapeuta dirà: “Ho incontrato mio padre più volte quando ero ricoverata in rianimazione che in tutto il resto della mia vita”. Di fronte a queste rimostranze, il padre non troverà di meglio che regalare a Maria un cellulare.

Pur in questa situazione i rapporti famigliari nella casa dei nonni vengono descritti da questi come armonici, almeno fino a quando Maria è arrivata ai 14 anni. “L’abbiamo accolta come una figlia, e Maria stava bene con noi”, dirà la nonna che però aggiungerà: “qualche disturbo c’era stato anche prima dei 14 anni”: in particolare l’aveva sentita spesso piangere prima di addormentarsi, invocando la mamma.
Nell’ultimo anno precedente il tentato suicidio erano invece  cominciate le prime “ribellioni” della ragazza: il desiderio di rientrare tardi la sera, i continui confronti con le famiglie dei suoi amici viste come più permissive, il fidanzato. Su quest’ultimo Maria aveva molto investito di sé e si era sentita abbandonata quando la relazione si era interrotta. Con il fidanzato Maria aveva avuto i primi rapporti sessuali e relativamente a questo, la compagna del padre riferisce come questi fossero stati vissuti dalla ragazza con profondo disagio.
Quando era ancora ricoverata in rianimazione ed era ancora un po’ confusa tanto da dirci “mi affido a voi, farò quello che voi pensate sia meglio per me”, Maria tornò sulle ragioni dell’ultimo tentativo di suicidio dicendo che l’aveva fatto per “liberare i miei dal mio peso”; alla nonna, qualche giorno dopo il rientro a casa, dirà che aveva voluto raggiungere la sua mamma in cielo.
L’intervento terapeutico è incominciato quando Maria era ancora ricoverata in rianimazione e poi in astanteria (Maria e i famigliari hanno rifiutato la proposta di ricovero presso il reparto di neuropsichiatria infantile) ed è stato mirato a sensibilizzare sia Maria  che la sua famiglia sulla assoluta necessità di un lavoro psicoterapico per la ragazza. Il tentativo iniziale ha trovato notevoli resistenze, che sono state superate grazie all’abilità ed alla pazienza della terapeuta successivamente intervenuta sul caso; attualmente Maria sembra aver stabilmente avviato una psicoterapia plurisettimanale, e viene aiutata anche farmacologicamente. Più difficile è risultata la presa in carico del nucleo famigliare, in particolare per le resistenze del padre.

Cambiamenti dopo il tentativo di suicidio.

Nei due mesi successivi il tentato suicidio la famiglia ha giocato un ruolo positivo, in qualche modo costretta a questo anche dal fatto che, a differenza delle altre volte, Maria non ha ritrovato subito un equilibrio ma ha anzi incominciato a mostrare i sintomi di un disturbo depressivo. E’ diventata infatti estremamente irritabile, insonne e con difficoltà di concentrazione a scuola. Maria inoltre, di fronte alle piccole contrarietà quotidiane o anche a modesti richiami ricorda ai familiari il suicidio mancato e manifesta apertamente il suo rimpianto per questo utilizzando frasi come: “se l’avessi pensato meglio, tutto sarebbe adesso risolto”. Diversamente dai primi episodi questa volta Maria non è rientrata nella normalità post-evento, mettendo così prepotentemente fine alla “congiura del silenzio”.
Dobbiamo per altro registrare come anche successivamente all’intervento terapeutico il desiderio suicidario di Maria sia rimasto attivo. Più recentemente infatti dopo un modesto richiamo fatto dalla compagna del padre, che è il punto di riferimento affettivo attuale più importante di Maria, la ragazza è rimasta per molto tempo “sospesa” su un davanzale al 6° piano dell’albergo dove Maria si era trasferita per un lavoro stagionale, con lo scopo di trovare “altra sistemazione”. Sembra che sia tanto grave il vuoto interiore, la carenza di oggetti buoni interni, che qualsiasi rimprovero è per lei una conferma della sua inutilità. Questo ennesimo attacco alla vita che fortunatamente non si è concretizzato, è avvenuto a dispetto della terapia farmacologica e della psicoterapia in corso.
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COMMENTO AL CASO CLINICO: prevalenza generale dei tentativi di suicidio tabelle, ruolo della famiglia, perdita precoce di un genitore per morte, modificazioni del concetto di morte, l'importanza dell'infanzia, ruolo delle tensioni adolescenziali, ripetizione del gesto e metodo, relazione tra tentativi di suicidio e malattia psichiatrica, lavoro terapeutico.

Abbiamo già osservato come la frequenza del tentato suicidio sia in aumento in età adolescenziale; la ripetizione del gesto suicidario di Maria ci permette di introdurre alcune considerazioni sulle attuali possibilità di quantificare il fenomeno.
Come abbiamo visto Maria ha tentato di suicidarsi in tre occasioni; soltanto nell’ultimo caso il gesto autolesivo è stato registrato come tale perché la sua gravità ha comportato il ricovero. Gli atti precedenti erano arrivati a conoscenza dei famigliari di Maria e, seppure in modo non completamente chiaro, anche ai compagni di scuola ed al personale scolastico, ma ad essi non è seguita alcuna segnalazione, né conseguentemente alcuna presa in carico terapeutica.
Ciò pone il doppio problema di quanti siano i tentativi di suicidio in età adolescenziale che non vengono registrati o segnalati come tali e di quali possono essere i motivi di questo silenzio. Tra questi bisogna intanto ricordare come sia recente anche per chi si occupa di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, la possibilità di ammettere che un minore sia in grado di ideare e realizzare un suicidio. Negli Stati Uniti, ad esempio, soltanto dalla metà degli anni 70 si ritiene possibile il suicidio in età pre-adolescenziale o in prima adolescenza, in precedenza lo si riteneva impossibile per una supposta immaturità psicologica del minore stesso (4).
Per evidenziare la discrepanza numerica tra tentati suicidi realizzati e denunciati abbiamo preso in considerazione le due modalità attualmente più utilizzate per raccogliere informazioni sulla frequenza del tentato suicidio in adolescenza:
(1) la registrazione di questi atti presso il Pronto Soccorso ospedaliero  e presso i  servizi psichiatrici. (5)
(2) la rilevazione tramite self-report. (6)
Questi ultimi sono questionari ad autosomministrazione dove viene richiesto di dichiarare l’avvenuto tentato suicidio (o la sua progettazione o soltanto l’aver pensato ad esso come ad una possibile via di uscita dall’angoscia e dalle difficoltà contingenti).

Entrambi i metodi non sono esenti da critiche. Nel primo caso infatti si può avere notizia di tutti i casi gravati da conseguenze sanitarie, ma ben sappiamo che specialmente in età evolutiva, le conseguenze sanitarie del tentato suicidio possono essere modeste, come anche il caso di Maria conferma, e non sono in significativa relazione con l’intento suicidario. Inoltre, una percentuale considerevole di soggetti che pure giunge al Pronto Soccorso tende a negare il tentato suicidio e presenta l’evento come accidentale (7); a questo comportamento fa specchio quello di negazione tenuto spesso dai medici forse per la ragione già richiamata, della difficoltà degli adulti a rappresentarsi la possibilità che un minore possa tentare di sopprimersi o di farsi intenzionalmente del male.
La negazione del gesto suicidario è ben evidente se consideriamo i risultati di una recente ricerca sulla frequenza del tentato suicidio svolta in un panorama europeo. Come si può osservare dalla TAB 2, vi sono differenze marcate per l’area di Oxford dove, grazie alla particolare organizzazione che si è data l’équipe che si occupa di questo problema, risulta minimizzato il peso degli eventi registrati come incidenti piuttosto che come tentati suicidi (8-15).
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Tab2
Frequenza del tentato suicidio in età 15-19 (n° di persone per 100.000 popolazione/anno).

Paese

 Maschi eta’ 15-19

Femmine eta’ 15-19

Sor-Trondelag, Norway -1991

85

230

Danish Region-1991

60

206

Leiden, Netherlands
(Valore medio 1989-1992) 

44

192

Bern, Switzerland
(Valore medio 1989-1990) 

76

279

Vasterbotten County, Umea, Swden
(Valore medio 1989-1991)

73.7 

219.8

Padova, Italia-1991

  17

188

Helsinki, Finland
(Valore medio 1989-1993) 

230

277

Oxford area, England
(media annua 1989 - 1992) 

300

  790

Rimini, Italy     (nota1)
(11 mesi  tra il 1997-1998)

35

314

 La tabella è tratta dallo studio multicentrico sul parasuicidio dell’OMS con esclusione dei dati che riguardano Rimini (16). In quest’ultima città la frequenza è stata raccolta seguendo le indicazioni OMS ottenendo quindi dati confrontabili.
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In termini puramente quantitativi e per i motivi esposti (tendenza alla negazione al momento della visita presso il Pronto Soccorso ed atti suicidari frequentemente non gravati da conseguenze sanitarie), la raccolta di dati gravati da conseguenze sanitarie non ci fornisce il panorama completo ed attendibile del fenomeno.
Ciò detto, bisogna ricordare che un indubbio vantaggio di questo metodo consiste nel fatto che se la raccolta di dati presso il Pronto Soccorso viene svolta in tempo reale essa permette un contatto diretto con l’adolescente suicidario in un momento molto favorevole per proporre una presa in carico terapeutica (17).
Con il metodo dei self report si dovrebbero poter registrare anche i tentativi suicidari non gravati da conseguenze sanitarie. Abbiamo confrontato i risultati di 7 importanti ricerche (18-24) svolte con questi strumenti (Tab 3) ed abbiamo così constatato che in questi studi si sono rilevate percentuali molto variabili del fenomeno, il che, naturalmente, è un limite che ne mette in discussione la validità; un altro limite è dato dal fatto che usando questo strumento si può incorrere in un errore metodologico di base consistente nel limitare di fatto il campione, visto che i self report sono più facilmente distribuiti nelle scuole. Negli ultimi anni si sono chiariti alcuni dei motivi della variabilità dei risultati raccolti, riuscendo così a migliorare l’affidabilità di questo strumento; si è visto ad esempio che porre il quesito cardine dell’indagine utilizzando il termine “togliersi la vita” piuttosto che “suicidio” fa che sì ottengano percentuali di risposta positiva piuttosto diverse.
 

Tab3 Risultati di alcune ricerche svolte con self-report (18-24).

n. soggetti 

paese

percentuale di t.s. in un anno 

età dei sogg

data pubblicazione ricerca

9268

Svizzera 

3%

m. e f. 15 - 20 

1997 aug.

1937 

Svizzera

2,3%

m. e f. 14 - 19

1996 feb.

3042

Danimarca

5%

m. e f. 15 - 24

1996 feb.

1265

Nuova Zelanda nota 1

  3% 

m. e f.  16

1995 oct.

1699

Australia

5.1%

m. e f.  15 - 16

1997 may

1779

Hawaii

4,3%

m. e f. in 6 mesi 14 - 18

1996 spr.

1025

Canada

  2%

  f.  in 6 mesi 14 - 18

1995 mar

Nota 1: all’età di 16 anni il 3% dei soggetti, seguiti dalla nascita e a cadenze periodiche con interviste, self-report, other-report, avevano tentato il suicidio.
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I dati che abbiamo riportato mostrano che la quota di tentati suicidi in adolescenza registrati tramite self-report oscilla fra 2% e il 5,1% collocandosi mediamente intorno al 3%. Questa stessa percentuale è anche quella suggerita dai ricercatori della Nuova Zelanda che hanno utilizzato numerose fonti di informazioni che rendono particolarmente credibile il 3% da loro riportato (21).
I dati dell’area di Oxford suggeriscono invece frequenze di tentati suicidi gravati da conseguenze sanitarie con percentuale media maschi\femmine dello 0,5%. Con la metodologia di Oxford eliminiamo i casi che sfuggono perché presentatati come incidenti, ma non quelli che non sono gravati da conseguenze sanitarie, come sono stati ad esempio i primi due tentativi di Maria.
Lo scarto tra le percentuali del fenomeno registrate con il sistema di Oxford e le medie registrate con i self report oscilla intorno al 2,5%: è all’interno di questa rilevante percentuale che si collocano i primi due tentativi di suicidio effettuati da Maria ma non registrati come tali.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, considerando anche le informazioni che provengono dalla letteratura internazionale (25), va sottolineata la necessità che anche in l’Italia vengano svolti studi che valutino il fenomeno prendendo in considerazione il peso dei parasuicidi senza conseguenze sanitarie. Lo strumento più adeguato sembra essere il self report perchè permette di raggiungere un ampio numero di adolescenti contemporaneamente, e ci restituisce dell’area indagata una fotografia attuale dai contorni nitidi seppure essenziali. In particolare, crediamo che esso sia utile quando si desidera impostare progetti di prevenzione mirati. Ricordiamo che il self-report non consente  di solito di individuare il caso singolo, ma permette, per il territorio indagato, di focalizzare quali sono tra gli aspetti psicosociali abitualmente associati al parasuicidio, quelli prevalenti (26). Questo è di particolare utilità nella definizione dei progetti di prevenzione, rispetto ai quali lo strumento del self-report consente anche di valutare nel tempo, la validità e l’efficacia degli interventi messi in atto (27-29).

Ruolo della famiglia

Il caso da noi descritto ci consente di fare alcune considerazioni sul ruolo giocato dalla famiglia per gli aspetti che attengono alla storia suicidaria. Non è certo casuale che molti studi siano dedicati al peso che le dinamiche famigliari hanno nel parasuicidio in età evolutiva . Nel caso di Maria si può evidenziare in questo senso il rifiuto di maternità esplicitato fin dal concepimento e quello di paternità che si è reso evidente nel corso del tempo. Come sappiamo, il rifiuto materno provoca sempre nel bambino vissuti di colpevolizzazione; nel nostro caso la colpevolizzazione verrà apertamente e violentemente esplicitata dalla madre le volte in cui rimprovererà Maria di non potersi pienamente realizzare nella vita a causa sua. I sensi di colpa di Maria si associavano anche a sentimenti di aggressività verso la madre. Possiamo ritenere che questi due elementi, senso di colpa ed aggressività, abbiano un forte peso in quella che consideriamo sia una mancata elaborazione del grave lutto . Con la morte della madre, Maria ha perso anche la sua casa originaria: si è infatti  trasferita dai nonni, vivendo questo trasferimento come una ulteriore conferma della indisponibilità paterna a farsi carico di lei.
Insieme alle considerazioni già fatte sulla relazione non facile con la madre, dobbiamo anche considerare che la perdita precoce di un genitore per morte, ovvero un lutto precoce per decesso di una persona vicina per accudimento al bambino, è ritenuto da Orbach (30) come circostanza di vita sfavorevole - condizione facilitante i processi di elaborazione di un progetto suicidario in giovane età. Questa condizione è infatti presente in percentuale elevata nella storia personale dei bambini e degli adolescenti che hanno tentato il suicidio. Essa sarebbe legata sia al senso di perdita e di abbandono che seguono il decesso di una persona di riferimento che al contatto precoce con la morte e le conseguenti precoci rappresentazioni cognitive della morte stessa. In effetti un altro aspetto della storia di Maria che è in risonanza con quanto suggerito da Orbach (31) e da Eglé Laufer (32), riguarda proprio la distorsione cognitiva dell'idea della morte. 

Nel nostro caso questo elemento si coglie in particolare quando la ragazza sottolinea il desiderio di raggiungere la madre in cielo e la convinzione di poterlo fare uccidendosi. Gli autori ora citati evidenziano come nell'adolescente suicidario si sia modificato il concetto di morte e come il desiderio di morte rappresenti in molti casi, e Maria ci pare essere uno di questi, una possibilità, una alternativa alla condizione che si trovano a vivere: quindi non la fine di tutto, ma piuttosto una soluzione, un nuovo inizio. Ciò sarebbe dimostrato anche dal fatto che se in questi adolescenti viene valutato l’atteggiamento per la vita e la morte, si trova come caratteristica distintiva un aumento del sentimento di "attrazione per la morte" e di “repulsione per la vita” (33-34).

Ricordiamo in proposito che già Fenichel (1945) aveva osservato come il suicidio potesse essere il soddisfacimento di un desiderio di riunificazione, ovvero di un giocoso e magico ricongiungimento con un oggetto amato perduto, oppure un’unione narcisistica con una figura superegoica amata (35).

Anche la presenza nella famiglia materna di uno zio con grave disturbo psicotico ed il disturbo d'ansia della stessa madre rappresenterebbero, come la letteratura suggerisce, un’altra condizione sfavorevole seppure a peso minore o meno specifico. (36)

Un ulteriore aspetto da considerare nella ricostruzione degli eventi che favoriscono il verificarsi di un parasuicidio, come ci ricorda Eglé Laufer (37), riguarda gli anni precedenti l'atto suicidale, quelli dell'infanzia, soprattutto quando il tentato suicidio, come in questo caso, si è verificato al momento della prima adolescenza. Sappiamo che il comportamento suicidario in adolescenza infatti, non è un atto improvviso ed imprevedibile, ma la conclusione di un lungo cammino nella sofferenza psichica spesso incominciato nell’infanzia. Probabilmente i pianti che Maria faceva al momento di addormentarsi e che la nonna riferisce di aver sentito con una certa frequenza dopo la morte della madre, erano un segnale del malessere che ha accompagnato l'infanzia della ragazza e l'ha portata a dare una risposta estrema ad una condizione che Orbach definisce con il termine di "problema irrisolvibile"(38). Ci sembra che Maria manifesti il proprio problema irrisolvibile quando dice: “volevo liberarli dal mio peso". Questa espressione sintetizza in modo molto efficace come il sentimento di inutilità e di colpa che una serie di condizioni esterne e personali ha determinato, l’abbia convinta di rappresentare solo un peso gravoso per chi la circonda, un peso in qualche modo da eliminare con il sollievo di tutti. Maria sembra davvero convinta che i famigliari saranno soddisfatti del suo togliersi di mezzo e saranno contenti per lei che potrà vivere meglio vicino alla madre.

Un altro elemento da sottolineare nel caso descritto si riferisce al fatto che i primi tentativi di suicidio sono stati compiuti sotto la spinta di tensioni adolescenziali.
L'aumento dei tentati suicidi che si registra con l'adolescenza rispetto all'età precedente è evidentemente favorito dai  cambiamenti fisici e psicologici che si verificano in quell'epoca e che sono caratterizzati tra l'altro da aspirazioni di autonomia ed indipendenza che portano spesso ad un aumento della conflittualità intrafamigliare. Il confronto con le tensioni proprie di questa fase evolutiva diviene molto faticoso qualora l'adolescente vi sia esposto senza sufficienti risorse. Millet et al. (1994) discutendo delle cause dell’alta incidenza del tentato suicidio e del suicidio in adolescenza, giungono a dire che “è l’adolescenza stessa la causa del suicidio in questa età” (39)
Moses ed Eglè Laufer descrivono le difficoltà nelle quali in alcuni casi gli adolescenti possono trovarsi, con l'espressione "breakdown adolescenziale" (40), volendo comprendervi elementi legati alla sessualità, alla relazione con i coetanei e con i genitori.
Questi autori nella loro pratica clinica, per valutare il reale rischio suicidario degli adolescenti problematici, ne considerano gli aspetti regressivi e le spinte al cambiamento, la rigidità o la facilità d'adattamento, nonché  la qualità della relazione con i coetanei. Questa valutazione viene svolta facendosi guidare da domande come: qual è l'importanza che i coetanei rivestono in contrapposizione alla famiglia? Qual è la relazione con i genitori e quale è il carattere della "separazione" da loro? Come si confronta questo/a adolescente con il mondo esterno? Cosa prevale tra il timore e la speranza nel futuro? Le fantasie di questo/a adolescente riguardo a sessualità, masturbazione, rapporto coll'altro sesso, impediscono la sua capacità di funzionare? (41).

Nel caso di Maria la separazione dal padre non è facilitata dalle caratteristiche della relazione troppo spesso simmetrica, quasi si trattasse di due adolescenti; le tensioni di natura edipica sono forti ed evidenti nel rapporto ambivalente che la ragazza ha instaurato con la compagna del padre. Nello stesso tempo le relazioni con i coetanei si dimostreranno superficiali ed insoddisfacenti per Maria e non è presente alcun gruppo in grado di sostenerla verso la separazione/individuazione. Maria si ritrova quindi in bilico tra le spinte regressive che la portano a far dipendere tutta la sua felicità dal comportamento paterno e le aperture verso i coetanei.

Sappiamo che un rischio immediato di suicidio è particolarmente presente quando sono assenti i sensi di colpa nei confronti dei genitori o parenti per l'atto che si pensa di compiere; in questa condizione la distorsione del pensiero può essere tale da far credere addirittura a questi adolescenti che i genitori approveranno la  loro scelta e saranno contenti per loro (42). Essi sentono di meritare il rifiuto e l’odio dei famigliari. Osservata da questa prospettiva la dichiarazione fatta da Maria in rianimazione, quando era ancora in lieve stato confusionale e con basse resistenze, sulla ragione del suo tentativo: "l'ho fatto per liberare i miei familiari dal mio peso", può essere letta come la possibilità per lei di rendere ai suoi famigliari un piacere.

Sulla ripetizione del gesto Eglé Laufer (37) ci ricorda che una volta infranta la barriera dell'autoconservazione - considerate anche le distorsioni cognitive già descritte - la possibilità che gli adolescenti ripetano il gesto è sempre presente, rappresentando nella loro fantasia un’arma segreta ed ultima risorsa disponibile da mettere in campo allo scopo di alleviare la loro sofferenza ed aumentare l’autostima. Con il procedere dei tentativi maturerà una progressiva capacità di procurarsi danni consistenti se non la morte stessa. (43)

L’efficacia del metodo utilizzato, inteso come in grado di determinare la morte, dipendente da numerosi elementi tra i quali anche caratteristiche demografiche e fattori psicosociali. In particolare la letalità è spesso associata al sesso maschile, a diagnosi di depressione associata ad abuso di sostanze stupefacenti, ad elevato intento e dettagliato progetto suicidario (44-47). Peraltro la letalità di atti impulsivi è fortemente in relazione alla disponibilità di strumenti in grado di provocare danni gravissimi con relativa facilità come le armi da fuoco (48-49). Questo porta molti autori a porre come obiettivo non secondario della prevenzione la possibilità di limitare l’accesso a questi strumenti di morte; ciò vale specialmente per quei paesi dove la diffusione delle armi da fuoco è capillare come negli Stati Uniti, ma non si può disconoscere che anche nel nostro paese si vada diffondendo il costume di tenere armi in casa.
Diversamente da quanto spesso viene descritto in letteratura come reazione ad un parasuicidio (17) e diversamente da quanto si era verificato in precedenza, Maria, dopo l’ultimo tentativo di suicidio, non sembra aver trovato il "sollievo post-evento" che le aveva consentito, in occasione dei primi due tentativi, di rientrare nella normalità facendo scivolare l'atto compiuto nel silenzio. Questa volta la fragile struttura psichica di Maria sembra essere in grave difficoltà. I suoi ripetuti tentativi sembrano esemplificare, l’affermazione che ogni parasuicidio adolescenziale rappresenta un segno di crollo mentale acuto (37).

Al rapporto tra tentato suicidio e malattia psichiatrica è dedicata in letteratura un’ampia discussione, come è confermato anche dai dati presentati nella Tabella 1. Seguendo il DSM IV (50) possiamo dire che ideazione suicidaria e tentato suicidio non sono disturbi psichiatrici ma sintomi compresi in specifici disturbi come ad esempio depressione maggiore e disturbo di personalità borderline.
Molti autori suggeriscono però l’esistenza di punti in comune tra coloro che hanno compiuto un gesto suicidario, almeno nelle tappe del percorso che va dall’ideazione suicidaria al suicidio.
Pfeffer (4) suggerisce ad esempio che il comportamento suicidario di prepuberi ed adolescenti si colloca all’interno di uno spettro (“Spectrum of suicide states”) che comprende ideazione suicidaria, minaccie e tentativi di suicidio, suicidio. Secondo la ricercatrice ognuna di queste fasi e la stessa evoluzione dall’una all’altra, è in relazione alla gravità del disturbo psichiatrico.
Alle stesse conclusioni giunge anche Brent (51) studiando con self-report psichiatrico 231 ragazzi per stabilire il grado di suicidalità, la prevalenza dei disturbi psichiatrici e la severità dei sintomi psichiatrici: i risultati ottenuti suggerivano uno spettro di suicidalità che andava dall’assenza di ideazione e di comportamenti suicidari alla loro marcata presenza, in relazione alla crescente gravità dei sintomi psichiatrici. Entrambi gli autori ora citati riconoscono peraltro all’azione degli eventi esterni grande importanza nel condizionare le manifestazioni sintomatologiche del disagio psicologico o della malattia psichiatrica, indirizzandole verso queste risposte estreme.
Nella grande maggioranza dei casi un tentato suicidio non è dunque un atto impulsivo ed imprevedibile ma qualcosa che è stata a lungo pensata e progettata. Nel progressivo definirsi del comportamento suicidario oltre alla patologia psichiatrica intervengono altri fattori come precoci esperienze di lutto, abuso, condizioni sociali e famigliari svantaggiate, uso di droghe.

Il comportamento suicidario non è certo l’unico in rilevante aumento in questi ultimi anni; a questo proposito vengono avanzate ipotesi che riguardano la rilevanza dei fattori sociali che accomunerebbe il comportamento suicidario ad altri ugualmente in grande aumento come i disturbi alimentari; un esempio di questo punto di vista ci è dato dal concetto di “epidemia sociale” proposto da Richard Gordon (1990) (52). In questa categoria, a parere di altri autori (53), rientrano anche disturbi inquadrabili come dipendenza e compulsività: le tossicodipendenze e più in generale l'abuso di sostanze, i disturbi ansioso-depressivi e le patologie fobico-paranoidee con crisi di depersonalizzazione ed attacchi di panico.

Della stessa opinione è anche Selvini Palazzoli (1998) (54) secondo la quale le troppe epidemie sociali degli adolescenti, (tossicodipendenza, moltiplicarsi impressionante dei casi di borderline, o di anoressia-bulimia, di depressioni e suicidi adolescenziali) testimoniano tragicamente l’urgenza di cambiamenti che non costringano le persone a richiudersi in una propria corazza, una corazza che per la ricercatrice sarebbe indotta dalla cultura  narcisistica imperante.

Il caso di Maria consente anche qualche riflessione in merito al lavoro terapeutico. Vanno ricordate le difficoltà che abbiamo incontrato per poter incominciare l’intervento. Potremo senz’altro dire che questo è in linea con quanto riportato da tutti gli autori. Resta il fatto che a tuttora ci è stato impossibile iniziare il lavoro con il nucleo famigliare nonostante le ripetute sollecitazioni e nonostante la loro iniziale dichiarata disponibilità.
Riguardo alle scelte del modello terapeutico si può osservare come vi siano studi che dimostrano come la  psicoterapia analitica possa rappresentare un ottimo approccio terapeutico. In proposito va ricordato che c’è chi sostiene autorevolmente (37) che nel caso del tentato suicidio il trattamento analitico deve essere intensivo, con non meno di 5 sedute settimanali, perché l’obiettivo non è quello di modificare il comportamento suicidario quanto quello di risolvere il disturbo di base. A questa posizione altri (17) pongono due obiezioni: da un lato l’impossibilità materiale da parte dei servizi psichiatrici di fornire un tale trattamento, dall’altro il fatto che un tale intervento non è adatto ad affrontare la crisi emozionale (55) che tanto frequentemente caratterizza il quadro clinico del soggetto che ha tentato il suicidio.
Dobbiamo dunque chiederci: possiamo orientare l’intervento in modo da affrontare il comportamento specifico per ridurre almeno l’immediato rischio suicidario?

Per alcuni autori (17,56) la risposta è positiva: si dovrebbe inizialmente promuovere una presa di distanza dal desiderio suicidario in modo da abbassare nell’immediato la possibilità che si ripeta un nuovo tentativo di suicidio. In questo senso sono diretti alcuni interventi di tipo cognitivista elaborati per il problema specifico. Pur essendo lontano da queste posizioni culturali, è orientato nella stessa direzione il test di Orbach sull’attrazione/repulsione verso la vita e la morte: esso non si propone soltanto come strumento in grado di diagnosticare le distorsioni cognitive dell’idea della morte che questi adolescenti hanno maturato nel tempo, ma anche come strumento di verifica delle modificazioni che le stesse distorsioni hanno subito a seguito di un trattamento mirato.(33-34)
Gli interventi psico-sociali e la terapia famigliare rappresentano certamente altre forme di risposta a ciò che Orbach definisce “problema irrisolvibile” e che rappresenta l’elemento costitutivo centrale nella dinamica psicologica che porta al suicidio; esse non sono incompatibili con le terapie già citate anzi, secondo molti autori, sono da utilizzare contemporaneamente.(4,17,56,57)
E’ evidente che la scelta dell’approccio terapeutico dipenderà da svariati elementi tra i quali, non ultimo, la formazione del terapeuta. A nostro avviso però, deve essere fatto il massimo sforzo per individuare e valutare il peso specifico dei diversi fattori che hanno spinto l’adolescente al parasuicidio; dovrà essere questa valutazione clinica a condizionare la scelta terapeutica.

E’ comprensibile come per un comportamento sostenuto da numerose e variabili ragioni sia oltremodo difficile fare ipotesi riguardo alla prognosi. Sono disponibili alcuni studi sull’evoluzione dei soggetti che hanno compiuto un gesto suicidario in adolescenza (58). Di particolare interesse sono gli studi che tentano di isolare i diversi elementi che possono condizionare la prognosi. Tra questi elementi condizionanti vengono indicati: la rapidità (59), la continuità, l’efficacia dell’intervento terapeutico; la patologia psichiatrica di base, i fattori psicosociali associati.
Riguardo all’efficacia della terapia vi è un recente lavoro di Brent (1998) (60) che mette a confronto tre diversi approcci terapeutici: psicoterapia cognitiva, sistemica e di sostegno non direttiva, valutati su pazienti depressi e con precedente tentato suicidio. L’autore ha osservato uguale efficacia dei tre interventi nella riduzione del rischio suicidario immediato e migliori risultati con l’approccio cognitivo sui sintomi della depressione. Il lavoro di King (1997) (61) cerca di individuare le variabili che aumentano o riducono la compliance verso la terapia dell’adolescente e della sua famiglia: l’aderenza alla terapia è più facile quando si attuano interventi individuali farmacologici (66.7%) e psicoterapici (50.8%), si riduce per l’approccio sistemico (33.3%) e diventa estremamente bassa quando l’atteggiamento famigliare verso il terapeuta è ostile o uno dei famigliari è affetto da disturbo psichiatrico. Relativamente agli altri aspetti sopracitati, meritano di essere segnalati il lavoro di Johansson (1997) (62) dove si valuta il peso di fattori psicosociali in particolare mettendo in relazione aspetti etnici, fattori sociali, malattie psicosomatiche, psichiatriche e suicidio, e quello di Dennis et al. (1997) (63) che è una lucida e documentata analisi del destino di 854 soggetti, sia minori che adulti che sono ricorsi al servizio medico di emergenza a seguito di 934 episodi di autolesionismo. Tra questi il 70% aveva dichiarato un chiaro intento suicidario ed il 67% aveva una storia psichiatrica; ben 291 (31%) tornarono direttamente a casa dopo le cure mediche (tra questi 50 di coloro che avevano ricevuto in passato cure psichiatriche), mentre il 45,5% fu trasferito in reparti di medicina o chirurgia e solo per 210 (23%) fu fatta una valutazione psichiatrica che quantificasse anche il rischio di ripetizione dell’atto. E’ dunque quanto mai attuale la necessità di migliorare, e di creare là dove è assente, una collaborazione tra pronto soccorso e servizio psichiatrico.

Un aspetto non secondario del caso clinico descritto e che assume particolare importanza se consideriamo il tentato suicidio in un’ottica di “epidemia sociale”, è rappresentato da come sono stati vissuti i tentativi di suicidio di Maria nella sua scuola. Sappiamo che già il primo tentativo si era reso evidente proprio a scuola, e che dell’ultimo tentativo sono arrivate a scuola, attraverso la miglior amica di Maria, informazioni dettagliate di quanto si era verificato.
Il fatto che oltre alla famiglia anche la scuola era stata testimone dei tentativi suicidari, insieme a quanto sappiamo riguardo al rischio imitazione nel caso di tentato suicidio o nel caso di suicidi realizzati, confermano l’importanza di un impegno verso progetti di prevenzione del suicidio che vedano nella scuola un cardine essenziale.(64-65)
L’attività di prevenzione deve trovare la massima collaborazione anche da parte dei media locali. Da tempo sono disponibili linee guida pubblicate dall’OMS, dall’United States Department of Health and Human Services (66) e dall’American Association of Suicidoligy (67) relative a come i mezzi di comunicazione di massa dovrebbero comportarsi: non presentare il suicidio come inspiegabile o come il risultato di cause semplicistiche o romantiche evitando ad esempio di proporre relazioni come fine di una storia d’amore e suicidio; evitare di pubblicare notizie di suicidio in prima pagina e di usare il termine “suicidio” nel titolo della notizia, non pubblicare foto della vittima, evitare di riportare dettagli sulle modalità del suicidio, non continuare nei giorni successivi a riportare l’evento, indicare se possibile le ricadute positive di una crisi suicidaria, includere informazioni su segnali di allarme, fonti d’aiuto e su quel che è possibile fare quando si identifica una persona suicidaria.

L’atteggiamento dei media che abitualmente presentano invece il tentato suicidio come un fatto inspiegabile (68) è probabilmente collegato alla già ricordata difficoltà degli adulti di “credere” possibile il suicidio in età evolutiva, come progetto che si realizza dopo essere stato lungamente pensato e dunque ben aldilà dell’ultimo avvenimento che rappresenta solo il fattore precipitante. Fortunatamente, la vita di Maria non si è fermata, ma provando ad immaginare secondo quanto ora detto, come l’eventuale decesso sarebbe stato presentato, possiamo facilmente pensare che esso sarebbe apparso come l’ennesimo “episodio inspiegabile” dove un’adolescente a cui non manca nulla, cellulare compreso, che va bene a scuola ed ha molti amici, “dopo un banale litigio con i famigliari, per un piccolo divieto compie un atto sconsiderato”.
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Riassunto- In questo articolo presentiamo il caso di una ragazza adolescente con esperienza di ripetuti tentativi di suicidio; la sua storia è discussa alla luce della recente letteratura rispetto alle correlazioni tra suicidalità, storia familiare e personale e gli atteggiamenti verso la vita e la morte. Inoltre mostriamo che il tentato suicidio in adolescenza è molto frequente e che la maggioranza dei tentativi non ha serie conseguenze mediche; di conseguenza tra gli adolescenti che tentano il suicidio sono pochi quelli che si rivolgono al Pronto Soccorso. Il Questionario Self-report è particolarmente importante per valutare l’epidemiologia e le caratteristiche psicosociali degli adolescenti parasuicidi (con o senza conseguenze mediche) e per verificare i programmi di prevenzione.
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